IL FINANZIAMENTO DELLA RICERCA BIOMEDICA IN ITALIA

“E’ opinione diffusa che il sistema del finanziamento della ricerca in Italia andrebbe profondamente modificato, avvicinandolo a quelli dei più importanti paesi occidentali. Il PTS in collaborazione con altri scienziati avanza alcune semplici proposte.”

di Piergiuseppe De Berardinis, Vincenzo Guardabasso, Micaela Morelli, Antonio Musarò, Guido Poli, Vincenzo Trischitta

Il finanziamento della ricerca in Italia è, ormai da molti anni, oggetto di dibattito e confronto fra gli scienziati e fra questi e il decisore politico che legifera in merito. Una parte consistente degli scienziati italiani lamenta sia l’esiguità dei fondi destinati alla ricerca sia la mancanza di coordinamento e trasparenza delle procedure di assegnazione dei finanziamenti. Grazie ai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si offre l’opportunità, forse storica, di modificare il sistema del finanziamento della ricerca in Italia, migliorandone gli aspetti critici e avvicinandoci alle abitudini e procedure dei più importanti paesi occidentali con consolidate tradizioni di ricerca. Con questa nota, il PTS offre il proprio contributo al dibattito sul finanziamento della ricerca in Italia, con particolare riferimento al settore biomedico.

Il documento si compone di

  • una breve premessa generale sulla ricerca scientifica italiana;
  • i risultati ottenuti da un’indagine qualitativa sul finanziamento della ricerca biomedica svolta con la collaborazione di alcuni ricercatori, per la gran parte italiani, ben inseriti in diversi paesi occidentali;
  • alcune proposte e suggerimenti sul finanziamento della ricerca biomedica in Italia.

Premessa

Le condizioni generali della ricerca in Italia presentano varie criticità come dimostrato da diversi dati, alcuni dei quali sono qui riportati in estrema sintesi:

  • I recenti dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) indicano un investimento in Italia dell’1,4% del PIL, ove la media Europea è del 2,1% mentre la Francia investe 2,2%, la Germania 3,2% ed Israele oltre il 4,5% del PIL. E meglio di noi fanno anche paesi come Ungheria, Repubblica Ceca ed Estonia, (articolo di Fulvio Esposito pubblicato dal PTS).
  • I ricercatori in Italia sono 213.000 (dati OCSE 2019), mentre la Francia ha circa 430.000 ricercatori e la Germania 630.000, (articolo di Fulvio Esposito pubblicato dal PTS o vedi anche qui). 
  • In Italia, nel 2021, i nuovi dottori di ricerca (PhD) per 1000 abitanti nella fascia di età da 25 a 34 anni sono circa 65 contro i 100 della Francia, i 135 della Germania e i 140 del Regno Unito. Meglio di noi fanno anche Estonia, Slovacchia, Slovenia e Spagna (dati dell’European Innovation Scoreboard 2021) (articolo di Fulvio Esposito pubblicato dal PTS).
  • Stiamo perdendo una parte dei nostri migliori ricercatori, che sono numerosi tra i vincitori degli Starting Grants dell’European Research Council (ERC) (n=53, nel 2020, secondi solo ai tedeschi) ma che, purtroppo, in larga maggioranza (ben 33) hanno deciso di svolgere la loro ricerca in istituzioni straniere ove, presumibilmente, resteranno a lavorare alla fine del Grant ERC.
  • Anche l’innovazione soffre di queste carenze, visto che lo European Innovation Scoreboard colloca l’Italia nel 2021 solo tra i paesi moderatamente innovatori. Meglio di noi fanno Francia, Germania, Olanda, Austria ed Estonia, per non parlare dei paesi scandinavi che sono leader dell’innovazione.
  • E’ necessario sottolineare anche la scarsa presenza femminile in Italia in discipline scientifiche e che le donne in posizioni apicali sono un terzo degli uomini. Più in generale il numero di laureati in Italia è tra i più bassi d’Europa (dati EUROSTAT).
  • Inoltre, il 50% dei ricercatori italiani ha una età tra 45 e 65 anni e solo poco più del 20% ha meno di 35 anni, età in cui la capacità ideativa e innovativa è ritenuta essere massima.   

Finanziamento della ricerca biomedica in paesi occidentali

Senza alcuna pretesa di essere esaustiva e rappresentativa di tutte le realtà esistenti, la nostra indagine si è svolta ponendo una serie di domande preordinate ad alcuni ricercatori prevalentemente italiani ben inseriti in diversi paesi occidentali (Oreste Acuto in UK,  Maria Grazia Biferi in Francia, Alessandro Doria in USA, Dolores Jaraquemada in Spagna, Silvia Maretto in Irlanda, Sandra Pellegrini in Francia, Michele Salanova in Germania, Maurilio Sampaolesi in Belgio e Francesco Saverio Tedesco in UK). I dati raccolti meritano un’analisi attenta e, verosimilmente, nuovi contatti con i nostri interlocutori, attività questa che è in cantiere per il prossimo futuro. Qui ci limitiamo a riportare le caratteristiche salienti che sembrano rappresentare un minimo comune denominatore del finanziamento della ricerca in ambito biomedico nei paesi sopra citati. Ci si riferisce solo ai progetti di ricerca “indipendenti” (cioè non pianificati dall’industria privata, quindi escludendo sia i trial clinici, sia la R&D intra-azienda, sia accordi diretti tra Industrie ed Enti di Ricerca).

  • Il finanziamento al singolo ricercatore in maggioranza con fondi pubblici è pari a circa 100-200k Euro per anno per 3-5 anni (al netto degli stipendi). Quindi, generalizzando, finanziamenti annuali maggiori per un maggior numero di anni rispetto a quanto accade in Italia.
  • Il processo di valutazione, sempre basato su revisione paritaria (“peer review”) è centralizzato in molti paesi, con commissioni di esperti sia nazionali sia esteri.
  • In tutti i paesi sono prevalenti bandi per singoli ricercatori, sebbene esistano pure bandi per consorzi tra università, altri enti e/o spin-off. Per questa seconda tipologia, il processo è sia “top-down” sia “bottom-up”, a seconda dei paesi.
  • I giovani ricercatori hanno opportunità speciali, ma il loro status dipende dagli anni di esperienza (max 7-10 anni dal conseguimento del PhD) e non dall’età anagrafica.
  • Esiste spesso un portale Web che fornisce informazioni sui bandi, la loro valutazione e il loro svolgimento.

Finanziamento della ricerca oggi in Italia — Proposte per la ricerca biomedica

Relativamente alle politiche per i finanziamenti alla ricerca il PTS in precedenti documenti aveva indicato come principali criticità

  1. l’esiguità del budget complessivo
  2. la necessità di una migliore gestione per ottimizzare e razionalizzare l’uso delle risorse disponibili.

Riguardo al primo punto, ampia parte della comunità scientifica aveva sostenuto e fatto proprio l’appello lanciato dal fisico Ugo Amaldi, che chiedeva uno stanziamento di 15 miliardi fino al 2025. Successivamente il nostro governo tramite il PNRR europeo ha previsto l’erogazione di maggiori finanziamenti. Con qualche approssimazione, dovuta al fatto che non sono state ad oggi fornite notizie chiare e definitive, possiamo dire che il PNRR dovrebbe destinare circa 17 miliardi alla ricerca fino al 2026, 11 dei quali rivolti ad attività di ricerca industriale e sviluppo tecnologico. Il finanziamento direttamente dedicato alla ricerca cosiddetta “di base” dovrebbe quindi essere di circa 6 miliardi di euro. Molti meno di quanto ipotizzato dall’appello di Amaldi e molto probabilmente insufficienti perché la ricerca italiana colmi la distanza che la separa da quella di tutti i paesi occidentali economicamente avanzati.

Riguardo al secondo punto, l’assenza di un coordinamento rende possibile, se addirittura non facilita, procedure non sempre trasparenti e lineari per l’assegnazione dei fondi, che invece dovrebbe vedere una selezione esclusivamente basata sul merito.

La legge di bilancio del 2022 ha di fatto cancellato l’istituzione di una Agenzia Centrale della Ricerca sollecitata da anni da molti scienziati italiani, tra cui il Prof. Silvio Garattini e la Senatrice a vita, Prof.ssa Elena Cattaneo, e proposta dal precedente governo, con la motivazione del potenziale rischio di creare un ulteriore livello di controllo con relativo aumento di burocrazia. Tuttavia, come chiaramente si evince dall’analisi di ciò che accade nella maggioranza dei paesi occidentali che godono di consolidate tradizioni nel campo delle politiche per la ricerca (vedi sopra), permane la necessità di un migliore coordinamento delle risorse nazionali per la ricerca che renda le procedure di assegnazione dei fondi agili, trasparenti e competitive.  

Al di là del modello organizzativo che il nostro Paese vuol darsi, resta irrinunciabile il fatto che il finanziamento della ricerca superi le logiche attuali. Riferendoci alla sola ricerca biomedica, che meglio conosciamo in quanto interesse diretto del PTS, seguono alcuni suggerimenti poco costosi e di semplice attuazione.

1. Bandire con tempistiche certe progetti coerenti con le necessità generali della ricerca in Italia e che promuovano innovazione. Le procedure di partecipazione ai bandi dovrebbero essere estremamente semplificate rispetto alle attuali che, a causa di regole burocratiche esagerate, frenano spesso la partecipazione di molti ricercatori, soprattutto se non supportati da importanti strutture organizzative/amministrative.

2. Garantire che la valutazione delle proposte sia basata su un attento sistema di “peer review”. Assicurare la presenza nelle commissioni di un elevato numero (almeno il 75%) di esperti appartenenti ad Istituzioni estere di comprovata esperienza nelle tematiche oggetto dei bandi. La partecipazione alle commissioni dovrà rispettare limiti temporali ed essere di massimo due mandati non replicabili per ogni singolo revisore.

3. Incoraggiare bandi per singoli ricercatori/laboratori di ricerca, limitando i “progetti a filiera” per evitare maxi aggregazioni in progetti che, essendo inevitabilmente in numero limitato, vanificano l’attività di una “peer review” rigorosa e competitiva.

4. Garantire che i giovani ricercatori cui, comprensibilmente, è riservata una parte dei finanziamenti, siano identificati come tali non per l’età anagrafica ma per gli anni trascorsi dal conseguimento del dottorato di ricerca o dall’ultimo titolo di studio conseguito.

5. Diversificare i bandi specifici per la ricerca da quelli che erogano fondi per strutture o infrastrutture dedicati alla ricerca. 

6. Allestire un unico portaleliberamente consultabile che informi relativamente a:

i) bandi disponibili, ii) revisori; iii) risultati delle procedure di selezione dei progetti da finanziare e del monitoraggio dei progetti già finanziati (sia monitoraggio in itinere e alla conclusione, sia 3-5 anni dopo la fine del finanziamento, per valutarne i risultati in termini di pubblicazioni, brevetti, etc.).Tale portale servirebbe inoltre a monitorare il rischio di sovrapposizioni di assegnazioni a progetti simili, se non uguali, provenienti spesso dallo stesso laboratorio, magari semplicemente cambiando l’indicazione del “principal investigator”. La valutazione ed il monitoraggio dovrebbero interessare anche i bandi per strutture o infrastrutture, verificandone sia il coinvolgimento/uso in ambito nazionale e internazionale sia la sostenibilità economica (derivabile dal rapporto tra costi e ricavi per l’espletamento di attività “in service”). 

Il PTS condanna gli attacchi e le minacce a medici e scienziati

La pandemia di COVID-19, entrata in una fase complessa di gestione a causa della variante virale omicron, ha fatto emergere molti aspetti positivi della nostra società, tra cui la sostanziale adesione alla campagna vaccinale di quasi il 90% della popolazione vaccinabile, segno di fiducia nel decisore politico e nella Scienza che ha fornito in meno di un anno vaccini innovativi e altamente efficaci nel prevenire la malattia grave e in buona parte anche l’infezione. Tuttavia, una minoranza residua della popolazione, globalmente definita “No- Vax”, ha rifiutato i vaccini creando significativi problemi di sovraccarico delle strutture ospedaliere e pagando anche un prezzo molto alto di morti evitabili.

In questo quadro generale, sono emersi recentemente anche atteggiamenti aggressivi e minacciosi nei confronti di medici e scienziati; citiamo a titolo d’esempio e in ordine temporale inverso le minacce all’immunologa Antonella Viola per aver promosso la vaccinazione nei bambini, a Diego Pavesio, medico di medicina generale, per essersi rifiutato di prescrivere esami prima del vaccino, e a Matteo Bassetti, infettivologo, per le sue dichiarazioni a favore della campagna vaccinale.

Simili violenti attacchi agli scienziati si erano già verificati mesi fa nei confronti di Marco Tamietto e Luca Bonini.

Il PTS condanna senza appello queste minacce ed esprime piena solidarietà ai colleghi oggetto di queste aggressioni, fortunatamente solo verbali. Il ruolo di medici e scienziati nella gestione della pandemia e nella comunicazione ai cittadini è fondamentale e rappresenta un caposaldo per un paese democratico i cui governanti centrali e locali sono chiamati a scelte difficili e a volte impopolari. Manifestare il proprio dissenso è più che legittimo in democrazia, ma ciò non può trascendere nell’insulto o nella minaccia verso chi cerca di curare, informare e spiegare le motivazioni mediche e scientifiche alla base delle scelte politiche.

“I BAMBINI NON SI TOCCANO”…E’ VERO: I BAMBINI SI VACCINANO!

“I BAMBINI NON SI TOCCANO”…E’ VERO: I BAMBINI SI VACCINANO!

Domanda: I bambini si ammalano di COVID-19? 

Risposta: Si

Sebbene la COVID-19 tenda a presentarsi in maniera più mite nei bambini rispetto agli adulti, essi contraggono comunque l’infezione da SARS-CoV2. Ad oggi si contano oltre 340.000 casi nella fascia 0-9 e oltre 500.000 nella fascia 10-19. Inoltre, a causa del fatto che non sono vaccinati, al momento i bambini si contagiano più degli adulti. 

Domanda: la COVID-19 nei bambini può essere grave? 

Risposta: Si

I bambini che si ammalano di COVID-19 sviluppano, seppur raramente, gravi danni polmonari e diverse altre complicanze sia nel breve che nel lungo termine. Tra le ultime, la Long Covid (7% dei casi secondo Franco Locatelli, Presidente del Consiglio Superiore di Sanità) con persistenza dei sintomi e comparsa della MIS-C (Multisystem Inflammatory Syndrome in Children), una malattia vascolare che interessa diversi organi causata da una sproporzionata risposta immunitaria che nel 70% dei casi richiede ricovero in terapia intensiva. Infine, fonti dell’ISS indicano che in Italia fino al 15 dicembre 2021, sono morti 15 bambini nella fascia d’età 0-9 anni a causa di COVID-19.

Domanda: Il vaccino anti-COVID19 per i bambini di 5-11 anni è sicuro ed efficace? 

Risposta: Si

Lo studio per cui l’AIFA ha approvato la vaccinazione nei bambini di età compresa tra 5 e 11 anni ha dimostrato un’elevatissima efficacia nel prevenire l’infezione sintomatica da SARS-CoV-2. 

Oltre 5 milioni di bambini nel mondo hanno ricevuto almeno una dose di vaccino anti-COVID19 e gli eventuali effetti collaterali più frequenti durano poche ore e sono sovrapponibili a quelli presenti nell’adulto (febbre, dolori muscolari, stanchezza, dolore nel sito di iniezione). Inoltre, rispetto alle età maggiori, i problemi cardiaci precedentemente descritti (miocarditi e pericarditi) si sono osservati nei bambini in percentuali minori, con minore gravità e con rapida risoluzione. 

Infine, non vi sono patologie pediatriche per cui vi sia una controindicazione assoluta al vaccino la cui somministrazione non necessita di alcuna preparazione né l’assunzione di farmaci antinfiammatori per prevenire i pochi sintomi fastidiosi che possono presentarsi per un paio di giorni dopo la vaccinazione.

Domanda: Insomma, il vaccino nei bambini va fatto?

Risposta: Prima lo fanno, meglio è!

In sintesi, i dati disponibili dimostrano che vaccinare i bambini contro la COVID-19 ha un rapporto costo/beneficio estremamente vantaggioso che sarebbe un grave errore ignorare, soprattutto considerando l’aumento costante dei casi notificati in età pediatrica nelle ultime settimane. Vaccinare i bambini appena possibile è quindi la scelta più saggia e opportuna.

photo credit by Unicef

BASTA FAKE NEWS NEI TALK SHOW

Non basta più la semplice preoccupazione o scandalizzarsi per i dati diffusi dal 55° rapporto del CENSIS presentato il 3 dicembre 2021 sulla consapevolezza e convinzioni degli italiani rispetto alla pandemia: “Per il 5,9% degli italiani il Covid non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile e per il 31,4% chi si vaccina fa da cavia”.

Ormai da mesi, soprattutto in televisione e purtroppo anche sul Servizio Pubblico della Rai, gli italiani assistono a diversi talk show che, lungi dall’offrire informazioni sulla tragedia sanitaria, economica e sociale che stiamo ancora attraversando, propongono piuttosto confronti con opinioni non scientifiche, antiscientifiche, fantascientifiche. 

Questo in nome di una supposta par condicio e del diritto di parola garantito dalla Carta Costituzionale, travisandone, tuttavia, il significato. La par condicio risulta infatti falsata dal confronto uno ad uno, laddove a volte un ricercatore serio si trova a fronteggiarne più di uno che con la scienza ed il metodo scientifico niente hanno a che fare e con il risultato di alimentare negli spettatori la sensazione che la “scienza è divisa”. E se è vero che la Costituzione garantisce a ciascuno di esprimere le proprie opinioni, di certo non impone di intervistare terrapiattisti, novax, medici radiati, politici e non che non conoscono ma dissertano di virologia ed epidemiologia: non si tratta di opinioni personali, ma di pericolose menzogne o eclatanti ignoranze offerte al pubblico come contraddittorio.

Il Patto Trasversale per la Scienza condivide le considerazioni di Enrico Mentana, direttore del TG di La7: “Mi onoro di non aver mai ospitato nel tg che dirigo nessun esponente dei no vax…A chi mi dice che così impongo una dittatura informativa o una censura alle opinioni scomode, rispondo che adotto la stessa linea rispetto ai negazionisti dell’Olocausto, ai cospirazionisti dell’11 settembre, ai terrapiattisti, a chi non crede allo sbarco sulla luna e a chiunque sostiene posizioni controfattuali…Per me mettere a confronto uno scienziato e uno stregone, sul Covid come su qualsiasi altra materia che riguardi la salute collettiva, non è informazione, come allestire un faccia a faccia tra chi lotta contro la mafia e chi dice che non esiste, tra chi è per la parità tra uomo e donna e chi è contro, tra chi vuole la democrazia e chi sostiene la dittatura”.

Come PTS ci appelliamo alla professionalità di tutti i giornalisti e a tutti coloro che hanno responsabilità dirette e indirette nella programmazione e gestione dei

programmi di informazione, soprattutto nei talk show, perché:

  • qualsiasi discussione sulla campagna vaccinale sia basata sulle evidenze scientifiche accertate in tutto il mondo dalle autorità sanitarie circa la sicurezza ed efficacia dei vaccini e l’opportunità della loro massima diffusione presso tutti i soggetti per i quali sono approvati;
  • Si prenda atto che la diffusione, a questo riguardo, di dati contrastanti con le evidenze comunemente accettate dalla comunità scientifica equivale alla diffusione di fake news;
  • il giusto approfondimento su questi temi e sulla malattia da COVID-19 in generale sia condotto da esperti autentici e riconosciuti nel settore, nel rispetto e avendo riguardo alle loro singole competenze.

Come PTS chiediamo inoltre:

  • all’Ordine Nazionale dei Giornalisti di vigilare e, se del caso, applicare il codice deontologico che impone ai propri iscritti di attenersi ai fatti basati su risultanze scientifiche, mettendo in campo gli strumenti sanzionatori previsti a tutela della professione e soprattutto di chi al lavoro giornalistico si affida per informarsi;
  • alla Federazione dell’Ordine dei medici, di fare altrettanto rispetto ai tanti iscritti che, basandosi su convinzioni che non trovano riscontro nella letteratura scientifica, diffondono false informazioni sulla pandemia e sulle vaccinazioni;
  • al Ministero della Pubblica Istruzione e a quello dell’Università di riorganizzare ed implementare la formazione scientifica fin dalla scuola primaria, fornendo alle prossime generazioni gli strumenti interpretativi per discernere una fake news.

Meritoriamente la Rai si è dotata di una task force contro le fake news, ma la cattiva informazione viaggia anche attraverso la presenza costante di personaggi che con la scienza non hanno a che fare ma partecipano quotidianamente a varie trasmissioni spesso senza il competente intervento del conduttore a sottolineare l’assurdità e la non scientificità delle loro affermazioni.

Naturalmente, a valle dell’informazione di natura scientifica, attuata secondo modalità corrette, è giusto che vi sia un dibattito di natura giuridico-legislativa circa i migliori strumenti per raggiungere gli obiettivi di diffusione più larga possibile della campagna vaccinale. Anche questo dibattito, tuttavia, deve avvenire nel rispetto delle evidenze scientifiche sopra ricordate, con toni rispettosi e adeguati alla difficile situazione sanitaria in corso e con il coinvolgimento anche di riconosciuti esperti di diritto costituzionale. Tutto ciò al fine di non alimentare il clima di confusione della popolazione generale evidenziato dal recente rapporto del CENSIS.

Innovare investendo in ricerca

PTS – “Sapienza” Università di Roma

16 settembre 2021

Obiettivo del Convegno “Innovare investendo in ricerca”, tenutosi on-line il 16 settembre 2021, è stato valutare i fattori legati all’innovazione nella ricerca e al trasferimento delle conoscenze da essa prodotte al fine d’indicare le strategie da adottare per sostenere la ricerca scientifica in Italia. La ricerca scientifica è infatti l’unica vera forza propulsiva, capace di elevare il Paese verso una crescita culturale, tecnologica, sociale ed economica.

Il Convegno si è aperto con l’intervento di Antonella Polimeni, Rettrice di Sapienza Università di Roma, che ha spiegato quanto sia importante implementare i sistemi integrati di innovazione, in grado di agevolare contaminazione e collaborazione fra Università ed Enti di Ricerca. L’intervento si è poi focalizzato sulla descrizione della necessità di costituzione di infrastrutture stabili, piattaforme per la ricerca avanzata multidisciplinare e creazione di incubatori di impresa.

Fulvio Esposito, rappresentante nel Comitato per lo Spazio Europeo della Ricerca, ha inveceevidenziato l’importanza che una occasione straordinaria come il PNRR diventi una occasione ordinaria e quindi mezzo per creare una tendenza alla crescita dell’investimento in ricerca. Per fare questo è importante investire in dottorati di ricerca, nuovi ricercatori, progetti di sviluppo basati su accordi di programma, con obiettivi, risultati attesi, monitoraggio e rigorosa valutazione ex post.

Elisabetta Cerbai, docente dell’Università di Firenze, ha descritto come in Italia esistano peculiarità qualitative in merito alle caratteristiche del gruppo eterogeneo dei ricercatori. Il primo è l’età, il secondo una spiccata attitudine a modifiche ricorrenti delle modalità di reclutamento e stabilizzazione, il terzo la scarsa presenza femminile in discipline tradizionalmente considerate maschili, una forbice che si allarga con la progressione verso i ruoli più alti. Inoltre, l’ingresso tardivo in posizioni stabili e autonome priva il sistema della capacità ideativa e innovativa più fertile e originale.

Gaetano Di Chiara,già docente dell’Università di Cagliari, ha delineato il delicato ruolo dell’Università nel trasferimento tecnologico (TT) della ricerca.Il TT è nato nelle grandi università americane, grazie allo stretto rapporto tra università e impresa per creare un circolo virtuoso tra ricerca di base e applicata. Il passaggio dall’invenzione all’innovazione è tuttavia un processo ad alto rischio che corrisponde ad una fase in cui la ricerca non è più finanziabile con fondi statali in quanto coperta da brevetto, ma è ancora in uno stadio troppo precoce per essere finanziata da istituzioni private. All’origine di una tecnologia rivoluzionaria c’è sempre un’originale ricerca di base. L’esempio tangibile di questo è il seminale lavoro del periodo 2005-2008 di Karikò e Weissman che descriveva le basi per lo sviluppo dei vaccini a mRNA e poi l’utilizzazione del brevetto di Karikò e Weissman da parte delle aziende biotecnologiche Biontech e Moderna.

E’ quindi necessario guardare al PNRR come a una strategia complessiva che nell’incidere sul tessuto socioeconomico, sulla qualità di formazione pre- e post-universitaria, sul diritto allo studio e all’inclusione, può avere riflessi anche sulla scelta di fare ricerca scientifica in Italia. Si tratta di scegliere se rimanere a traino di paesi capaci di innovazione, o assecondare la vocazione che i ricercatori e le ricercatrici hanno, come dimostrano i numeri, coltivata da una buona o talvolta ottima tradizione educativa, ma che viene spesa oltre frontiera.

Antonio Musarò (Università Sapienza, Roma) e Micaela Morelli (Università di Cagliari)

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CURE DOMICILIARI, BASTA BUFALE

Il Patto Trasversale per la Scienza e l’Associazione Biotecnologi Italiani stigmatizzano il fatto che informazioni pseudoscientifiche abbiano trovato spazio in una sala del Senato della Repubblica: le terapie domiciliari definite “precoci”, e promosse attraverso i social, anche se vengono presentate come miracolose, non lo sono e costituiscono un rischio per i malati. Le cure domiciliari, serie, in Italia esistono e sono quelle regolamentate e basate su evidenze scientifiche.

I casi Stamina e Di Bella ci dovrebbero aver insegnato a dubitare di chi promuove pseudoterapie senza portare prove scientifiche, ma solo racconti molto spesso privi di ogni riscontro. Abbiamo bisogno di una Medicina basata sulle evidenze, che devono essere pubblicate, discusse e condivise all’interno della Comunità Scientifica, e non di slogan dati in pasto alle piazze o sui media, il cui unico risultato è di creare false speranze nelle persone e indurle a non adottare comportamenti che potrebbero salvare loro la vita.

Si chiede pertanto agli organi competenti, dal Ministero all’Istituto Superiore di Sanitá dall’Aifa al Consiglio Superiore di Sanitá e al Garante per la privacy, ma anche agli Ordini Professionali e alle Società Scientifiche, di adempiere al proprio ruolo e di verificare ed intervenire rispetto a comportamenti che mettono potenzialmente a rischio la vita delle persone, come ad esempio:

la prescrizione di terapie off-label che utilizzano farmaci e integratori inutili o dannosi, senza tener conto della tempistica di somministrazione (come ad esempio il cortisone o l’eparina), né della posologia raccomandata o dell’interazione tra essi;


la pubblicizzazione e prescrizione di tali terapie via web, senza la visita del malato e senza che vi sia un razionale scientifico né una adeguata fase di raccolta dati per il monitoraggio dei risultati ottenuti;
la continua travisazione e denigrazione del protocollo domiciliare ufficiale e del lavoro delle migliaia di medici di medicina generale che lo applicano;


la richiesta di firmare non un consenso informato, ma una liberatoria per il medico che prescrive tali “cure”, in cui viene scaricata sul paziente ogni responsabilità civile e penale, cosa illegittima nel nostro Paese;


l’assenza di una chiara e precisa informativa sul trattamento dei dati personali e sensibili che vengono raccolti anche con mezzi del tutto inadeguati a garantirne la protezione.
la continua richiesta di “donazioni” con modalità opache quali Bitcoin o conti svizzeri.

Teniamo a ricordare che ad oggi abbiamo almeno 10 cose che sappiamo sulla gestione domiciliare della Covid-19:
Niente farmaci inutili e potenzialmente dannosi. L’85% di chi entra in contatto col virus SARS-CoV-2 resta asintomatico o paucisintomatico, questo è il dato che giustifica la “vigile attesa”, perché nella maggior parte dei casi il nostro sistema immunitario è in grado di gestire autonomamente l’infezione, ed è sufficiente il semplice ausilio di paracetamolo e antinfiammatori in presenza di febbre, dolori articolari o muscolari. La terapia farmacologica è indicata solo in particolari casi ed esistono protocolli di cura precisa per la gestione dei pazienti domiciliari.

Gli anticorpi monoclonali sono ad oggi indicati, entro 10 giorni dalla comparsa di sintomi, per alcune categorie a rischio come obesi, dializzati. Il plasma iperimmune non ha invece dimostrato di poter dare benefici certi.
L’uso precoce di cortisonici in assenza di sintomi, o con leggera sintomatologia, non è indicato perché può compromettere la risposta immunitaria. Anche nei casi indicati, la somministrazione non deve avvenire prima di 4 giorni dall’insorgenza dei sintomi per lo stesso motivo. Inoltre non tutti i cortisonici sono uguali, per la terapia è indicato il solo desametasone;

L’uso di eparina non è raccomandato a domicilio, soprattutto in pazienti non immobilizzati;

L’uso di antibiotici non è raccomandato a meno che, dopo visita medica, si sospetti una importante infezione batterica;

L’uso di idrossiclorochina non è raccomandato né a scopo terapeutico né a scopo di prevenzione;

L’utilizzo di antivirali come lopinavir, ritonavir non è raccomandato in quanto si sono dimostrati inefficaci. Il remdesivir è raccomandato solo per uso ospedaliero;

L’uso di ivermectina non è raccomandato nè come terapia nè come prevenzione, per la sua inutilità contro il coronavirus e l’alto profilo di rischio;

L’uso del parvulan, un generico immunostimolatore registrato in Brasile, ma non in Italia, come coadiuvante per il trattamento dell’acne, non è raccomandato per la sua inutilità contro SARS-CoV-2;

L’utilizzo di vitamina D, lattoferrina, quercetina ed altri integratori alimentari non è raccomandato per inefficacia terapeutica e di profilassi.

Le decisioni sulle strategie vaccinali non dovrebbero essere prese in seguito a un’onda emotiva

La morte di una giovane ragazza, associata e possibilmente causata dalla vaccinazione con vettore adenovirale, rappresenta una tragedia e colpisce emotivamente più dei freddi “numeri” dei decessi giornalieri per COVID-19. E’ ingiusto, ma è così, e non da oggi, spiegano gli psicologi. Ciò che non dovrebbe succedere, ma è successo, è che chi è preposto a prendere decisioni importanti per la collettività, lo faccia influenzato, anche solo per associazione temporale, da eventi emotivi quale il caso in questione. La decisione di cambiare strategia “in corsa” e adottare d’emblée l’approccio eterologo per la seconda dose vaccinale per chi ha ricevuto una prima dose con vaccino Astra-Zeneca (Vaxzevria) non poteva non avere la conseguenza di generare sconforto e confusione sia nei cittadini che nelle singole regioni, e non solo per comprensibili motivi logistici.

Il messaggio percepito, non voluto, ma inevitabile è stato: “la precedente strategia era sbagliata”, da cui, appunto, sconforto, confusione e reazioni emotive comprensibili del tipo “non siamo le vostre cavie da esperimento”.

Il dibattito scientifico sull’utilità e i potenziali vantaggi della vaccinazione eterologa (una dose col vaccino A, la seconda col vaccino B) è in corso ed iniziano a comparire, spesso in forma non ancora revisionata da altri scienziati (peer review), i primi risultati incoraggianti. Ma tradurre questo legittimo e importante dibattito dal contesto sperimentale, inclusivo di studi in “doppio cieco”, all’applicazione diretta, senza alcuna indicazione o raccomandazione di EMA e altre agenzie regolatorie, è intempestivo e, al di là delle migliori intenzioni, destinato ad alimentare ansie, confusione, difficoltà di analisi dei risultati vaccinali (già molto compromessi dall’eterogeneità delle strategie adottate dalle singole regioni).

Fortunatamente, tutti i vaccini sono “buoni vaccini” e funzionano proteggendo le persone dall’evoluzione in malattia grave, se infettate, e prevenendo efficientemente dalla trasmissione virale, soprattutto dopo la seconda dose. Nonostante la cattiva informazione e comunicazione che se ne sta facendo.

Per approfondimento, vedi: https://www.ilfoglio.it/salute/2021/06/15/news/mix-di-rischi-non-ragionati-su-astrazeneca-2519375/

Il PTS difende Enrico Bucci dagli attacchi della “lobby” dell’agricoltura biodinamica

Guido Poli: “La lotta alla pseudo-scienza, nelle sua varie dimensioni, è nel DNA del PTS. Enrico Bucci, da par suo, ha smontato e dimostrato l’inconsistenza scientifica della cosiddetta “agricoltura biodinamica”, come già denunciato dalla Senatrice a Vita, Prof.ssa Elena Cattaneo. Il PTS si riconosce pienamente in quanto espresso da entrambi e lo sosterrà con tutti i mezzi leciti in democrazia”.

Apprendiamo con sgomento che, in data 9 giugno 2021, nella seduta n. 334, è stato depositato presso il Senato della Repubblica, a firma del Senatore Saverio De Bonis, un Atto di Sindacato Ispettivo (n. 4-05612 –http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/Sindisp/0/1299462/index.html)  nei confronti del Prof. Enrico Bucci, noto ricercatore, divulgatore scientifico e coordinatore di un Gruppo Operativo dedicato alle frodi scientifiche e all’integrità nella ricerca nonché membro del Consiglio Direttivo del Patto Trasversale per la Scienza. Il Prof. Bucci, che tenta da anni di portare elementi di razionalità nel dibattito pubblico su altri temi scientifici con ripetuti interventi, compresa la recente pandemia di COVID-19, ha “meritato” l’attenzione del Senatore De Bonis per aver evidenziato l’inconsistenza scientifica dell’Agricoltura Biodinamica, erroneamente paragonata all’Agricoltura Biologica.

Esprimiamo la massima solidarietà a Enrico Bucci e condividiamo i suoi sforzi sottolineando che l’Agricoltura Biodinamica non è un’evoluzione o una branca dell’Agricoltura Biologica, come si sostiene anche nell’Atto depositato dal Senatore De Bonis, ma semmai una sua involuzione. Per chi fosse interessato ad approfondire rimandiamo ad una serie di recenti interventi di Bucci sul tema: https://www.ilfoglio.it/tag/biodinamica/

Cogliamo infine questa occasione per spronare il Senato della Repubblica a valorizzare il sapere scientifico, facendo anche tesoro delle importanti sfide imposte dalla pandemia e condurre il nostro Paese nel futuro, non nel passato occupandosi di pratiche esoteriche prive di qualunque fondamento scientifico.

Costi e benefici di AstraZeneca e Johnson & Johnson

Calcoliamo bene il rapporto costi/benefici della scelta di non somministrare i vaccini basati su vettore adenovirale (AstraZeneca e Johnson & Johnson) sotto i 60 anni

di Enrico Bucci, Luciano Butti, Corrado Canafoglia, Davide Ederle, Julia Filingeri, Andrea Grignolio, Diego Pavesio, Luca Pezzullo, Guido Poli, Guido Silvestri, Marco Tamietto, Vincenzo Trischitta, Francesca Ulivi, Andrea Uranic.

I ministeri della salute e le agenzie regolatorie di molti paesi europei, compreso il nostro, hanno deciso che è preferibile non vaccinare gli under 60 con Vaxzevria (il vaccino di AstraZeneca, AZ, a cui seguiranno probabilmente decisioni analoghe per quello prodotto dalla Johnson & Johnson, J&J), pur non vietandolo, perché in questa fascia d’età il rapporto costi/benefici non sarebbe sufficientemente favorevole. Ma siamo sicuri che sia così? Ma davvero se avessimo questi vaccini a disposizione per tutta la popolazione sarebbe meglio non vaccinare comunque gli under 60 ed attendere i mesi necessari per l’arrivo di altri vaccini? O se fra qualche mese, una volta vaccinati tutti gli over 60, non riuscissimo a vaccinare rapidamente gli under 60 con gli altri vaccini a mRNA davvero non dovremmo utilizzare i vaccini basati su vettori adenovirali per accorciare i tempi? Proviamo a ragionare sui dati disponibili e necessari per rispondere con ragionevole certezza a queste domande.

I dati disponibili

1. Nel primo anno di pandemia si stima (per difetto) che il 5% degli Italiani si sia infettata con SARS-CoV-2, il virus che causa la malattia nota come COVID-19

https://opendatadpc.maps.arcgis.com/apps/dashboards/b0c68bce2cce478eaac82fe38d4138b1

2. In Italia la popolazione degli adulti sotto i 60 anni è rappresentata al netto dei decimali da 32 milioni di individui:

–  19 milioni (il 59%) nella fascia 40-59 aa

–  13 milioni (il 41%) nella fascia 20-39 aa

https://www.tuttitalia.it/statistiche/popolazione-eta-sesso-stato-civile-2019/

3. Il tasso di letalità (cioè quanti dei soggetti che hanno contratto l’infezione andranno incontro a morte) stimato dall’ISS è pari a:

–  0.4% nella fascia 40-59 anni

–  prossimo a 0% nella fascia 20-39 anni.

https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Bollettino-sorveglianza-integrata-COVID-19_24-febbraio-2021.pdf

Gli scenari

Stante i dati sopraesposti, immaginiamo uno scenario in cui:

A. non si voglia/possa più stare in lockdown e si abbia un Rt pari almeno a 2 (ogni infetto contagia in media due persone; da sottolineare che in assenza di lockdown SARS-CoV-2 ha un Rt stimato di 2,4 senza tener conto di varianti più contagiose, quali l’”Inglese” che oramai è responsabile del 90% delle nuove infezioni);

B. tutti gli over 60 siano stati vaccinati e quindi siano protetti dal COVID-19 e dalle sue più temibili complicanze (scenario irrealistico sia perché non tutti si vaccineranno, sia perché la protezione per quanto ottima non è assoluta, ma qui si vuole essere conservativi);

C. i 32 milioni di Italiani nella fascia 20-59 anni non si vaccinano con Vaxzevria o J&J, aspettando per tre mesi un altro vaccino. E’ ipotizzabile che circa l’1.25% di essi (un quarto del 5%/anno di cui al punto 1) contrarrà l’infezione da SARS-CoV-2, cioè circa 400mila individui (236mila nella fascia 40-59 anni e 164mila nella fascia 20-39 anni). Questi, con Rt=2, a loro volta infetteranno altri 800mila individui, 472mila individui nella fascia 40-59 aa (per un totale in questa fascia di 708mila individui) e 328mila individui nella fascia 20-39 (per un totale in questa seconda fascia di 492mila unità).

Quanti decessi ci possiamo aspettare tra i soggetti infettati, in considerazione del tasso di letalità osservato in Italia e descritto al punto 3?

– nessun decesso (0%, esagerando in ottimismo) nei circa 490mila della fascia 20-39 anni

– lo 0,4% nei circa 700mila della fascia 40-59 aa pari a 2.800 decessi

E se si vuole considerare uno scenario con Rt pari a 1 (più o meno quello attuale ottenuto dopo un lungo lockdown), si fa in fretta a dimezzare per un totale di 1.400 morti.

Infine, ipotizzando che siano proprio i vaccini con vettore adenovirale a “causare” la trombosi venosa cerebrale (TVC) o addominale (TVA) con un’incidenza di 1/100mila (tutto da dimostrare sia in termini di causalità che di incidenza), non vaccinando i 32 milioni di Italiani under 60 eviteremmo circa 320 casi di TVC/TVA, una sessantina dei quali in forma letale.

Il rapporto costi/benefici

Quindi, in sintesi, in assenza di lockdown se per tre mesi tutti gli Italiani under 60 anni non si vaccinassero con AZ o J&J si devono mettere in conto alcune migliaia di decessi al fine di risparmiarne qualche decina…

Certo, questi numeri possono essere lievemente diversi in funzione di alcune variabili che è difficile controllare in maniera perfetta. Per esempio, nei prossimi 3-4 mesi, grazie all’innalzarsi della temperatura, il virus potrebbe circolare meno e causare meno vittime. D’altra parte, come si è detto, sappiamo che non accadrà mai che tutti gli over 60 si vaccineranno e ciò, inevitabilmente, aumenterà il numero dei contagiati e dei decessi causati dalla mancata vaccinazione degli under 60. 

Noi continuiamo a pensare che, se ci fosse (o se ci sarà in futuro) la disponibilità di questi vaccini, sarebbe bene somministrarli a tutti gli adulti, senza distinzione per classi d’età. L’EMA, peraltro, non ha indicato limiti d’età per l’uso di questi vaccini basati su vettori adenovirali   

(https://www.ema.europa.eu/en/news/astrazenecas-covid-19-vaccine-ema-finds-possible-link-very-rare-cases-unusual-blood-clots-low-blood  e

https://www.ema.europa.eu/en/news/covid-19-vaccine-janssen-ema-finds-possible-link-very-rare-cases-unusual-blood-clots-low-blood).

Inoltre, non è escluso che analizzando i dati, anche futuri, possa emergere il suggerimento che fra gli under 60 si dovrebbe dare precedenza ai maschi che rischiano più delle donne di contrarre il COVID-19 in forma grave e morirne https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Bollettino-sorveglianza-integrata-COVID-19_24-febbraio-2021.pdf

mentre, per contro, la stessa EMA ci informa che sono meno a rischio di sviluppare le rare forme di TVC/TVA associate a questi vaccini.

Non possiamo quindi essere d’accordo con chi sostiene: “non vacciniamo con AZ (o J&J) gli under 60 per evitare il rischio di TVC/TVA, tanto poi li vacciniamo fra qualche mese con altri vaccini” perché in quei “pochi” mesi diverse centinaia di migliaia di persone si ammaleranno, sovraccaricando il sistema ospedaliero, e, purtroppo, alcune migliaia moriranno.

Investire in ricerca per curare il Paese

terapie a confronto: approccio oligarchico o democratico

ll dibattito sull’impiego dei fondi del PNRR per la ricerca scientifica, si fa sempre più ampio e molte sono le proposte presentate al Governo. Dopo la nostra lettera di appoggio alla Senatrice Cattaneo, pubblichiamo questo articolo redatto da molti dei nostri soci.

Continua il dibattito sul tema della ricerca e sui criteri di valutazione per la distribuzione delle risorse. Il piano Amaldi, sottoscritto da eminenti scienziati, indica la strada per un’inversione di rotta e propone al governo una svolta ambiziosa per rendere competitivo il nostro Paese nel panorama internazionale: “investire in ricerca pubblica e capitale umano e sostenere la ricerca di base, fonte primaria dell’innovazione nelle società avanzate”.

Qualche settimana fa, Tito Boeri e Roberto Perotti hanno voluto puntualizzare quello che gli scienziati che hanno sottoscritto l’appello di Amaldi hanno omesso di indicare: “Come far sì che questi maggiori finanziamenti migliorino effettivamente la qualità della ricerca?” Il ragionamento di Boeri e Perotti, esplicitato nel titolo dell’articolo, “Basta contributi a pioggia, i fondi vanno concentrati sulle università migliori”, ha stimolato un acceso dibattito nella comunità scientifica che vive le difficoltà di un sistema sottofinanziato e, nonostante tutto, da nord a sud, contribuisce a rendere il sistema della ricerca un punto di riferimento per lo sviluppo sociale, culturale e scientifico del Paese. Quella comunità scientifica che conosce molto bene il principio che le risorse debbano essere distribuite in base a criteri di merito e si oppone all’idea che istituzioni e fondazioni private, senza alcuna competizione, possano beneficiare a vita di soldi pubblici.

Una tale sperequazione nei criteri di distribuzione delle risorse creerebbe uno scollamento sociale e culturale, perché limiterebbe il fondamentale principio costituzionale che sancisce l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, senza il macigno di ostacoli di ordine economico. Una preoccupazione, questa, espressa recentemente, in un documento-appello indirizzato al Presidente Draghi, da un gruppo di giuristi universitari e autorevoli costituzionalisti.

Vorremmo quindi contribuire al dibattito con una proposta, che parte dal piano Amaldi.

Un Paese, per essere pronto alle nuove sfide, dovrebbe:

1) garantire finanziamenti pubblici per la ricerca di base, fondati su un accesso competitivo alle risorse, humus essenziale per far emergere eccellenze e talenti;

2) potenziare e rinnovare le infrastrutture esistenti, tenendo conto che, come dimostrano la storia passata e ancor più quella recente, la loro fruibilità in ogni campo è tanto maggiore quanto più ampia e diffusa è la rete di laboratori e centri che vi afferiscono;

3) rimuovere il macigno di una burocrazia ipertrofica che spesso frena le potenzialità di ricerca e sviluppo nelle università, mentre fondazioni private che godono di finanziamenti pubblici sono esentate da lacci, lacciuoli e freni burocratici (in altre parole, evitare che la ricerca italiana viaggi a due diverse velocità);

4) dotare il Ministero della Università e della Ricerca (MUR) di un ufficio ad hoc, permanente, composto da figure qualificate, non affiliate a strutture di ricerca italiane, costantemente aggiornate sulle complesse procedure di valutazione, istruito per gestire la delicata fase di erogazione del denaro pubblico;

5) adottare misure di detassazione che prevedano l’abolizione dell’IVA su reagenti e apparecchiature a favore di università e centri di ricerca senza scopo di lucro.

Il PNRR è un’occasione unica per rimettere l’Università e tutto il comparto della ricerca di base al centro delle politiche del nostro Paese. Bisogna tuttavia evitare di commettere errori, già avvenuti nel passato, che costringono a complesse e difficili modifiche in corso. Proporre, come si evince dalla bozza del PNRR, sette (perché sette?) iniziali nuovi poli di innovazione locale/territoriale distribuiti in diverse città (con quale criterio?) incaricati della erogazione alle imprese di servizi tecnologici avanzati (quali? Con quale obiettivo?) e servizi innovativi qualificanti di trasferimento tecnologico (quali? In che misura? Con quali regole?) senza un preciso razionale, senza una definizione chiara degli obiettivi, senza verificare se quelle innovazioni siano in realtà già presenti nelle Università o negli Enti di ricerca esistenti, è l’ennesimo esercizio della politica di creare nuovi contenitori che toglierebbero valore al comparto della ricerca già esistente, senza probabilmente raggiungere lo scopo del PNRR.

Antonio Musarò, Alexandra Battaglia Mayer e Roberto Caminiti (La Sapienza Università di Roma)

Gaetano Di Chiara e Micaela Morelli (Università di Cagliari)

Ugo Borrello e Marco Onorati (Università di Pisa)

Michele Simonato (Università di Ferrara e Vita Salute San Raffaele, Milano)

Marco Tamietto (Università di Torino)

Paolo Pinton (Università di Ferrara)

Luciano Conti (Università di Trento)

Monica Mattioli Belmonte (Università Politecnica delle Marche)

Girolamo Calò e Michelangelo Cordenonsi (Università di Padova)

Gianpaolo Papaccio (Università di Napoli Vanvitelli)

Maria Grano (Università di Bari)

Daniele Bani e Elisabetta Cerbai (Università di Firenze)

Roberto Ciccocioppo (Università di Camerino)