RIFLESSIONI DOPO LA CONDANNA PER OMICIDIO COLPOSO DEL MEDICO OMEOPATA MECOZZI

di Avv. Luciano Butti – membro del Consiglio Direttivo del PTS

La Corte di Cassazione lo ha definitivamente confermato: il dr. Massimiliano Mecozzi, medico omeopata, merita la condanna a 3 anni di reclusione per omicidio colposo. Il sanitario, infatti, aveva insistito per sottoporre un bambino affetto da grave otite a sole cure omeopatiche, in sostituzione degli antibiotici, invece assolutamente necessari sulla base delle condizioni del piccolo paziente. Purtroppo, in pochi giorni, l’omissione delle terapie appropriate ha causato la morte del bambino.

Questo caso, sul quale anche il PTS aveva sollevato l’attenzione (https://www.pattoperlascienza.it/2019/09/25/il-pts-al-processo-mecozzi/), deve portarci a riflettere su alcune questioni di carattere generale riguardanti l’omeopatia, il Servizio Sanitario Nazionale e il ruolo che devono giocare gli Ordini professionali e i Dipartimenti di Medicina e Farmacia delle nostre Università.

In primo luogo, dunque, l’omeopatia. Le evidenze scientifiche mostrano che i cd. rimedi omeopatici possono in alcune patologie avere un effetto analogo a quello della somministrazione di un ‘placebo’. Nulla di più e nulla di meglio. Pertanto, a tutto concedere, in presenza di patologie potenzialmente pericolose si tratta di rimedi che possono essere somministrati soltanto in aggiunta, e non in sostituzione, rispetto alle terapie mediche appropriate. Nel caso in questione, invece, avvenne il contrario, per una presunta pericolosità degli antibiotici sostenuta dal medico.

In secondo luogo, il Servizio Sanitario Nazionale. In alcune Regioni, ad esempio la Toscana, risorse del sistema sanitario regionale, quindi pubbliche, vengono destinate all’organizzazione di ambulatori omeopatici. Al di là della limitata (per fortuna) estensione di questo tipo di situazioni, il messaggio rivolto ai cittadini è potenzialmente fuorviante. Anche perché non sempre viene chiaramente spiegata la mancanza di evidenze scientifiche circa un presunto effetto di questi rimedi oltre il ‘placebo’.

In terzo luogo, gli Ordini professionali e i Dipartimenti di Medicina e Farmacia delle nostre Università dovrebbero chiaramente e costantemente assumere il punto di vista della medicina basata sulle evidenze. Pertanto, gli Ordini dovrebbero chiarire che presentare i rimedi omeopatici come sostituti rispetto alle terapie validate costituisce, da parte del medico, illecito disciplinare e ciò anche nei casi in cui, differentemente da quello in esame, non vi sono conseguenze gravi o addirittura tragiche. I Dipartimenti di Medicina e Farmacia dovrebbero seriamente riflettere sul messaggio distorto che viene lanciato alla società civile dalla proliferazione di corsi e master riguardanti l’omeopatia che beneficiano (economicamente) solo chi li promuove.

IL MINISTERO DELLA SALUTE E LA PSEUDOSCIENZA: L’ASTROLOGO ALLA CONFERENZA STAMPA SUL CANCRO

Milano, 13 dicembre 2024

Il Patto Trasversale per la Scienza esprime la propria disapprovazione per la partecipazione ad eventi ufficiali del Ministero della Salute di chi sostiene posizioni pseudoscientifiche.
In particolare sottoscrive, come già fatto da numerosi accademici e medici, la lettera dell’Associazione Luca Coscioni ( https://www.associazionelucacoscioni.it/wp- content/uploads/2024/12/Un-astrologo-alla-conferenza-stampa-della-LILT-1.pdf ), ripresa oggi dal nostro socio Enrico Bucci con un editoriale su Il Foglio (https://www.ilfoglio.it/scienza/2024/12/12/news/l-astrologo-alla-conferenza- stampa-sul-cancro-e-il-silenzio-di-ministero-della-salute-e-lilt-7237388/) , sulla presenza di un astrologo a moderare l’ultima conferenza stampa della Lega italiana per la lotta contro i tumori – Lilt, lo scorso 5 dicembre a Roma, presso una sala del ministero della Salute, organizzata “per la presentazione al ministro della Salute Orazio Schillaci dello stato dell’arte e le future prospettive della Lilt”.

Il Presidente, prof. Guido Poli e il Direttivo

Ancora una volta, l’Italia non e’ stata in grado di recepire correttamente la Direttiva europea sulla sperimentazione animale

di Giuliano Grignaschi

In Italia, la Direttiva 2010/63/EU per la tutela degli animali usati a fini scientifici è stata recepita con una legge (decreto legislativo 26/2014) che ha introdotto misure più stringenti, ma che non trovano giustificazione scientifica e vanno a danno non solo della ricerca, e quindi in ultima analisi, dei molti pazienti ancora in attesa di cura, ma anche in parte degli animali stessi.

La legge ha infatti introdotto il divieto di allevare sul territorio cani, gatti e primati destinati a fini scientifici. Queste specie sono però fondamentali in molti ambiti biomedici, compresi i test previsti per legge sui farmaci: diretta conseguenza del divieto è la necessità di importare gli animali dall’estero, quando necessari. Ciò implica causare loro lo stress del trasporto ma anche e soprattutto avere una minor garanzia di controllo degli standard sugli allevamenti d’origine, soprattutto se extra-EU.

I divieti aggiuntivi hanno portato la Commissione europea ad avviare una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, tuttora aperta.

Con il DL Salva Infrazioni 2024, attualmente in fase di conversione in legge, Luciano Ciocchetti (FdI), ha presentato un emendamento per rispondere a tutte le obiezioni mosse dalla Commissione Europea all’Italia e risolvere i divieti che hanno determinato l’apertura della procedura d’infrazione.

Tuttavia, alla vigilia della votazione, la Lega Antivivisezione (LAV) ha pubblicato un comunicato affermando che l’emendamento avrebbe aperto «la strada a nuovi allevamenti-lager di cuccioli». È seguita una massiccia e coordinata azione sui social media: numerosissimi utenti hanno commentato i post dell’On. Ciocchetti sulle diverse piattaforme ribadendo l’accusa di voler riaprire “canili lager”.

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Intervista sui vaccini al Dr. Rino Rappuoli

Direttore Scientifico della Fondazione Biotecnopolo di Siena Accademico dei Lincei

CV dr. Rino Rappuoli

La vicenda del ritiro del vaccino anti-COVID-19 di AstraZeneca ha rievocato le aspre polemiche del periodo pandemico soprattutto per la sua rarissima associazione con una forma emorragica mortale. Più in generale, la notizia ha fatto riemergere perplessità nella popolazione generale relativamente all’utilità e ad una presunta “pericolosità” dei vaccini in generale. Per questi motivi, il Patto Trasversale per la Scienza (PTS) ha deciso di porre alcune domande al più grande esperto di vaccini in Italia e sicuramente tra i maggiori esperti a livello internazionale, il Dr. Rino Rappuoli.

1. Caro Dr. Rappuoli, iniziamo dal caso del ritiro del vaccino anti-COVID-19 di AstraZeneca. Il motivo è semplicemente di ordine commerciale o c’è dell’altro?

RR. La decisione del ritiro del vaccino di AstraZeneca contro COVID-19 è stata presa puramente per ragioni commerciali, ma per capire perché si è giunti a questa decisione bisogna conoscere la storia di questo vaccino che cercherò qui di riassumere. Il vaccino AstraZeneca è stato sviluppato dal gruppo di ricerca di Oxford, U.K., ed è costituito da un vettore virale (un adenovirus di scimpanzé che non replica nell’uomo, chiamato ChAd), che porta il gene che codifica per la proteina Spike di SARS-CoV-2. Per funzionare, il ChAd deve infettare le cellule in modo che queste possano “leggere” (trascrivere) il gene della Spike e produrre la proteina. Prima di allora, il ChAd era stato sviluppato per un vaccino contro l’infezione da virus Ebola, ma era stato utilizzato in un numero limitato di soggetti. Una prima limitazione (che conoscevamo già) è il fatto che, in seguito alla prima dose, il ChAd induce anticorpi (Ab, “antibodies”) anche contro sé stesso i quali neutralizzano e rendono meno efficace il vaccino quando viene inoculata la seconda dose. La seconda limitazione è emersa dalla sperimentazione clinica in quanto questo vaccino ha conferito una protezione dall’infezione nell’ordine del 60-70% mentre i vaccini a RNA messaggero (RNAm) modificato hanno dimostrato, almeno inizialmente, un’efficacia superiore al 90%. La terza limitazione è stata la comparsa di effetti collaterali gravi, seppur rarissimi (trombosi, soprattutto in giovani donne), che sarebbe stato molto improbabile identificare in una sperimentazione limitata per numero di partecipanti, ma che sono diventati evidenti vaccinando centinaia di milioni di persone. A causa di queste diverse limitazioni il vaccino non è mai stato registrato negli Stati Uniti (il paese più importante dal punto di vista commerciale) ed è uscito quasi subito dal mercato Europeo, secondo mercato commerciale. Il vaccino di AstraZeneca ha comunque avuto un impatto positivo enorme perché sono state prodotte e distribuite, a un costo molto basso, più di tre miliardi di dosi che sono state distribuite soprattutto nei paesi a basso reddito che non potevano permettersi i ben più costosi vaccini a RNAm. Finita la pandemia, il vaccino non è stato aggiornato per contrastare le nuove varianti virali e, quindi, ormai non aveva più mercato né nei paesi a basso reddito né, tantomeno, nei paesi più ricchi. Quindi la decisone di ritirarlo dal mercato era inevitabile.

2. Allargando l’orizzonte ai maggiori rischi a cui l’Italia, e il mondo in generale, potrebbero andare incontro, quali sono o dovrebbero essere le priorità dell’agenda politico-sanitaria? Per esempio, si discute molto di una possibile pandemia di virus influenzale H5N1 che sta infettando i bovini negli USA. Dovremmo allestire vaccini come nel 2009 o è più sensato seguire l’evoluzione dell’infezione prima di allocare risorse importanti che poi magari rimarrebbero largamente inutilizzate?

RR. Malattie infettive che arrivano all’improvviso e causano pandemia non sono una novità: basti ricordare la peste del 1347 che uccise un terzo della popolazione europea o l’influenza “Spagnola” che nel 1918 causò dai 40 ai 60 milioni di morti. Recentemente, tuttavia, la frequenza con cui malattie emergenti compaiono è aumentata drasticamente. Basti pensare all’infezione dal HIV, comparsa agli inizi degli anni’80, alla SARS nel 2002/2003, all’influenza suina nel 2009. E poi l’epidemia di Ebola nel 2014, di virus Zika nel 2017 e, infine, SARS-CoV-2/COVID-19 comparso in Cina alla fine del 2019. L’aumento della frequenza con cui malattie emergenti compaiono è sicuramente dovuto a diversi fattori, tra cui la densità della popolazione mondiale, che ha ormai raggiunto gli 8 miliardi di persone, e l’estrema urbanizzazione di ampie aree incontaminate. A questo vanno aggiunte le centinaia di milioni di persone che viaggiano e possono diffondere, in linea d principio, in pochi giorni in tutto il mondo ogni potenziale malattia emergente. Inoltre, il cambiamento climatico porta nei nostri paesi malattie finora ristrette ai paesi tropicali. Quindi, per il futuro dobbiamo essere pronti ad affrontare altre malattie emergenti.

In questo momento, il virus che preoccupa di più è quello dell’influenza aviaria H5N1, comparso per la prima volta nel 1997 e poi è rimasto confinato agli uccelli, fino a che, recentemente, ha cominciato a infettare molte specie di mammifero. L’ultima notizia preoccupante è l’infezione delle mucche negli Stati Uniti e la sua presenza nel latte che esse producono. Credo che sia doveroso prepararsi per una eventuale pandemia da virus H5N1, ma ovviamente dobbiamo essere pronti per qualsiasi tipo di malattia emergente, e tra queste vanno considerate le infezioni causate da batteri resistenti agli antibiotici. Oggi, grazie alle nuove tecnologie, abbiamo la possibilità di fare Ab monoclonali (mAb) e vaccini che possono prevenire la maggior parte delle malattie infettive. Nel caso del virus H5N1 abbiamo vaccini efficaci che avevamo già sviluppato nei primi anni 2000 e possiamo allestire vaccini nuovi basati su RNAm e mAb per prevenire e curare l’infezione.

E’ tuttavia importante che i vaccini siano disponibili in tutto il mondo, compresi i paesi poveri, e che non siano ristretti ai paesi più ricchi. Un’iniziativa di cui possiamo essere orgogliosi è che l’Italia ha deciso di creare un istituto completamente dedicato alla preparazione alle pandemie. Quest’istituto, di cui ho l’onore di essere il Direttore Scientifico, sarà basato a Siena e avrà tra le priorità lo sviluppo di vaccini e mAb sia contro batteri resistenti agli antibiotici sia contro agenti virali, tra cui il virus H5N1.

3. In Italia, ma non solo, c’è un forte calo di immunità della popolazione per malattie infettive per cui esistono vaccini sicuri ed efficaci, come il morbillo e la pertosse. Cosa sarebbe necessario fare per invertire questa rotta preoccupante? Reintrodurre l’obbligo vaccinale come qualche anno fa?

RR. Ultimamente si è assistito ad un calo delle vaccinazioni anche contro quelle malattie causate da agenti infettivi che credevamo di aver sconfitto completamente come la differite, il morbillo, la pertosse e così via. La ragione di questo calo è da attribuirsi soprattutto al fatto che le nuove generazioni, e quindi i genitori di oggi, non hanno mai avuto queste malattie e non hanno quindi mai visto bambini morire di difterite, di pertosse o di morbillo, o bambini menomati a vita dalla poliomielite. Quindi, i genitori di oggi non percepiscono la necessità di vaccinare contro malattie che non hanno mai visto. A questo si aggiunge il fatto che, disgraziatamente, negli ultimi tempi è aumentata la disinformazione sui siti web e sui social network da parte dei movimenti contrari alla vaccinazione finendo per alimentare l’incertezza dei nuovi genitori. Quindi, è assolutamente necessario che gli scienziati e le autorità competenti s’impegnino per una giusta informazione sui benefici e sulla necessità delle vaccinazioni, spiegando che queste proteggono non solo le persone vaccinate, ma, tramite la cosiddetta “immunità di gregge” (o di popolazione), proteggono anche le persone fragili che non possono essere vaccinate.

Io non sono favorevole alla vaccinazione obbligatoria perché penso che in un paese in cui le persone sono educate ed intelligenti, queste dovrebbero capire da sole il grande vantaggio delle vaccinazioni e, quindi, vaccinarsi spontaneamente. Tuttavia, quando l’adesione spontanea ai programmi di vaccinazione non è sufficiente a prevenire la circolazione dell’agente infettivo, l’obbligo vaccinale può essere una misura necessaria per proteggere sé stessi e, soprattutto, le persone più fragili. Basti pensare che nel nostro paese il calo della vaccinazione contro il morbillo ha permesso la circolazione del virus che ha infettato e ucciso bambini leucemici che, purtroppo, non potevano essere vaccinati.

4. Dr. Rappuoli, lei è stato un pioniere in ambito vaccinale introducendo la tecnologia della “vaccinologia inversa” che ha permesso di allestire vaccini per cui gli approcci tradizionali non davano frutti, come nel caso della pertosse. Ci può spiegare in parole semplici di cosa si tratta e se questo approccio può avere ancora importanza visto il successo dei vaccini basati su RNA messaggero modificato?

RR. La storia della vaccinologia inversa (o “reverse vaccinology” in Inglese), risale ai primi anni ‘90 quando eravamo riusciti a produrre vaccini contro quattro dei cinque sierotipi di meningococco, un batterio che causa la meningite. Tuttavia, né noi né nessun altro al mondo, con le tecnologie a disposizione a quei tempi, riuscivamo a elaborare un vaccino contro il meningococco B. Avevamo quindi bisogno di una tecnologia rivoluzionaria, che arrivò nel 1995 quando Craig Venter (colui che, pochi anni dopo, avrebbe sequenziato privatamente il genoma umano, in concorrenza con il più grande ente pubblico di ricerca del mondo, i National Institute of Health, USA) pubblicò la sequenza del genoma di un batterio. Questa era una nuova tecnologia straordinaria e rivoluzionaria che permetteva di leggere direttamente il codice di tutti i geni del batterio e quindi anche di scoprire potenziali componenti (“antigeni”) per fare i vaccini che non eravamo riusciti a scoprire con le tecniche tradizionali. Quindi, assieme a Craig Venter e Richard Moxon di Oxford, U.K., sequenziammo il genoma del meningococco B e lo decodificammo. Così trovammo antigeni mai visti prima e riuscimmo ad allestire un vaccino partendo dalle informazioni sul genoma batterico che erano già presenti in un computer, senza bisogno di partire da un batterio ucciso o da un suo componente o da un batterio vivo attenuato come era stato fatto fino ad allora. Oggi il vaccino contro il meningococco B è registrato in molti paesi, viene dato a tutti i bambini italiani nei primi mesi di vita e li protegge da una malattia terribile. La vaccinologia inversa è entrata nella routine dello sviluppo di tutti i vaccini e oggi tutti, ma soprattutto i vaccini a RNAm, partono dal genoma dell’agente infettivo per disegnare i nuovi vaccini.

5. Quali ritiene che saranno i “vaccini del futuro”? In particolare, riusciremo mai a scoprire vaccini efficaci contro HIV/AIDS o la Tubercolosi?

RR. Tradizionalmente, i vaccini sono stati sviluppati per eliminare le malattie infettive che causavano la morte dei bambini nei primi anni di vita. Visto il loro straordinario successo, recentemente abbiamo cominciato a chiederci se si sarebbero potuti sviluppare vaccini per garantire la salute dell’uomo durante tutto l’arco della sua vita. Grazie alle nuove tecnologie, sono stati sviluppati vaccini per proteggere le persone più fragili, quali gli anziani e le persone immunocompromesse. Oggi abbiamo già a disposizione i vaccini contro i virus dell’influenza, il virus respiratorio sinciziale, contro lo herpes zoster e lo pneumococco. Tra i vaccini in via di sviluppo abbiamo i primi successi nei vaccini contro il cancro, altro concetto rivoluzionario, e stiamo preparando vaccini per proteggerci da pandemie e da infezioni da agenti resistenti agli antibiotici. Quindi, grazie alle nuove tecnologie, riusciremo a fare sempre più vaccini che potranno mantenere in salute la popolazione dalla prima infanzia alla vecchiaia, vaccini sicuri e accessibili non solo nei paesi ricchi ma anche, e soprattutto, nei paesi poveri.

Tuttavia, ci sono ancora alcuni vaccini che non riusciamo a sviluppare. Il primo della lista tra questi è quello contro il virus HIV che causa l’AIDS, una malattia mortale per il 95% delle persone infettate se non assumono la terapia antiretrovirale (disponibile dalla metà degli anni ’90 e oggi ridotta a 1-2 pillole al giorno). Purtroppo, questo virus muta così velocemente che un vaccino prodotto contro il virus di oggi non riuscirà a proteggere contro il virus di domani. La scienza sta facendo sforzi enormi per trovare vie alternative per fare vaccini contro HIV, ma la soluzione non è ancora a portata di mano. Invece nel caso della Tubercolosi abbiamo cominciato ad avere i primi successi, anche se parziali, ed è quindi possibile che nel giro di qualche anno potremo avere buone notizie.

6. Perché i bambini molto piccoli (1-2 anni) devono ricevere diversi vaccini in un tempo molto ridotto e non in tempi più lunghi?

RR. I bambini nascono con un’immunità contro le malattie infettive costituita dagli Ab che la madre passa loro durante la gravidanza e con l’allattamento. Tuttavia, questa immunità svanisce velocemente e dopo qualche mese i bambini diventano suscettibili a malattie gravi o mortali. Per questa ragione è molto importante vaccinare al più presto i neonati, in modo che i bambini possano generare la propria immunità contro le malattie infettive più comuni nell’infanzia nel più breve tempo possibile. Infatti, oggi i bambini ricevono una serie di vaccinazioni a partire dal secondo mese e diventano resistenti a molte malattie infettive già a partire dal terzo/quarto mese di vita prima che svanisca l’immunità materna con l’interruzione dell’allattamento.

7. Come mai certi vaccini vengono realizzati ancora usando i metodi tradizionali basati sulla somministrazione di virus o batteri “morti” o vivi e attenuati?

RR. Per due secoli, dal primo vaccino sviluppato da Jenner nel 1796, fino a quelli scoperti da Maurice Illeman alla fine degli anni ‘60, i vaccini sono stati sviluppati isolando, uccidendo o attenuando virus, batteri o parassiti causa di malattie. Molti di questi vaccini vengono usati ancora oggi e non c’è necessità di cambiarli poiché la lunga esperienza del loro uso su centinaia di milioni di persone ci garantisce sul fatto che siano sicuri ed efficaci. Le nuove tecnologie, quali il DNA ricombinante, la coniugazione, la vaccinologia inversa, gli adiuvanti, i vaccini a RNAm, sono servite a prevenire quelle malattie che non era possibile prevenire con vaccini tradizionali basati su agenti infettivi uccisi o attenuati.

8. Alcuni vaccini inducono l’immunità che dura per tutta la vita…

RR. Uno di questi è il vaccino contro la febbre gialla, basato su un virus vivo-attenuato. Altri vaccini, come quelli per difterite, pertosse ed epatite B, inducono una immunità che dura fino a 10 o più anni. Altri invece hanno bisogno di richiami vaccinali annuali, come nel caso dell’influenza. La durata dell’efficacia di un vaccino, in generale, è determinata da due fattori: la “quantità” di risposta immunità necessaria per proteggere da un’infezione, virale o batterica, e la capacità dell’agente patogeno di sfuggire alla immunità indotta dal vaccino. Per esempio, il virus influenzale e quello del COVID-19 cambiano ogni anno e dobbiamo quindi aggiornare continuamente i vaccini per essere sicuri di riuscire a proteggere contro il virus che sta circolando in quel momento.

9. Adiuvanti. Questa parola induce diffidenza nei confronti dei vaccini in molte persone che pensano al mercurio o ad altre sostanze dannose per l’organismo…che cosa sono gli adiuvanti e perché sono importanti nella preparazione dei vaccini?

RR. Gli adiuvanti sono sostanze che vengono aggiunte ai vaccini per potenziarne l’efficacia. Sono in genere costituiti da molecole capaci di stimolare il sistema immunitario e, alle dosi utilizzate nelle preparazioni vaccinali, sono assolutamente sicuri e non tossici. Uno degli adiuvanti più usati sono i sali di alluminio che sono stati usati per più di un secolo mostrando un profilo di assoluta sicurezza ed efficacia sia nei bambini che negli adulti. In anni recenti, grazie al progresso scientifico, sono stati introdotti adiuvanti più moderni che hanno permesso di potenziare i vaccini contro influenza, herpes zoster e il coronavirus causa della COVID-19.

Gli adiuvanti non vanno confusi con i conservanti che venivano usati in passato per mantenere la sterilità dei vaccini infialati in flaconi multidose. Tra questi c’erano i sali di mercurio che, alla dose utilizzata, erano assolutamente sicuri, ma che non vengono più usati da un paio di decenni perché oggi i vaccini vengono infialati in dosi singole.

10. Quando ricevo un vaccino, il “principio attivo” e altre componenti rimangono per molto tempo nel mio organismo oppure si degradano rapidamente?

RR. I principi attivi dei vaccini, una volta iniettati, vengono catturati velocemente da cellule del sistema immunitario presenti nel sito di iniezione, “mangiano” (fagocitano) il vaccino e le sue componenti e lo trasportano ai linfonodi. Qui le componenti del vaccino vengono frammentate per attivare rapidamente il sistema immunitario. La permanenza nell’organismo dei principi attivi varia da vaccino a vaccino, ma in genere è breve: da qualche giorno nel caso dei vaccini inattivati, con o senza adiuvante, a qualche settimana quando si tratta di vaccini vivi-attenuati che possono persistere più a lungo. Ad esempio, nel caso del vaccino contro il morbillo, il virus attenuato si moltiplica fino a raggiungere un picco dopo 8-10 giorni e poi si estingue. Nel caso dei vaccini a RNAm la loro persistenza dura circa due settimane e poi si estingue. In nessun caso si sono rilevate tracce di vaccino a lungo termine.

Appello pro Servizio Sanitario nazionale SSN

Il Patto Trasversale per la Scienza (PTS) sottoscrive e rilancia l’appello dei 14 Big Italiani della Scienza e della Medicina, tra cui il Premio Nobel Giorgio Parisi, sui timori che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) non riesca più ad erogare livelli assistenziali adeguati secondo i principi di universalità, solidarietà ed equità che lo hanno animato dal 1978 ad oggi.

In tutti questi anni, il nostro SSN si è contraddistinto per la capacità di fornire livelli assistenziali di eccellenza a tutta la popolazione e, per questo, è stato classificato come uno dei primi al mondo nella graduatoria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

L’assistenza fornita negli ospedali e nei presidi territoriali del SSN è frutto della medicina basata sulle evidenze scientifiche, naturale evoluzione della ricerca di base e traslazionale, generando molte eccellenze tra cui gl’Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) che hanno fatto brillare la Sanità Pubblica Italiana e avanzare le conoscenze e le opportunità terapeutiche per molte malattie.

Tale patrimonio ha prodotte spesso vere e proprie “scuole di pensiero e di ricerca” in cui si sono formate generazioni di maestri e di allievi capaci di trasmettere ed elaborare le conoscenze scientifiche in ambito biomedico in competenza e nonché abilità tecniche e pratiche.

Il PTS si unisce pertanto all’appello dei 14 Big Italiani della Scienza e della Medicina per difendere e rilanciare il nostro prezioso Servizio Sanitario Nazionale!

https://www.corriere.it/cronache/24_aprile_03/sanita-appello-14-big-scienza-il-sistema-sanitario-nazionale-grave-crisi-c-rischio-non-riuscire-piu-ad-assistere-tutti-c3bf6ac4-f1a7-11ee-8ce8-d1851d0e956a.shtml?&appunica=true&app_v1=true

La Sostenibilità della Sanità Territoriale

di Guido Sampaolo

Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) individua un nuovo modello organizzativo per la rete di assistenza sanitaria territoriale, con la determinazione dei relativi standard strutturali, tecnologici e organizzativi dettati dal DM 77/2022 (1,2). Vengono così definiti una serie di investimenti relativi all’assistenza territoriale da finanziare con il PNRR, che si sviluppano su tre diversi livelli: le Case della Comunità, l’Assistenza domiciliare e gli Ospedali di comunità. Abbiamo avuto già modo di affermare che tale modello che si avvale di un approccio di medicina di iniziativa, rappresenta a nostro avviso un valido punto di partenza per la riorganizzazione della sanità territoriale, spostando l’asse degli interventi sanitari sulla popolazione e sul singolo individuo verso la prevenzione.

La dotazione economica per finanziare tale modello è stata definita per la riqualificazione delle strutture esistenti o per la creazione di nuove; nel luglio 2023 il Governo ha ridefinito al ribasso il numero delle Case e degli Ospedali di Comunità e dell’Assistenza Territoriale. Non nascondiamo tuttavia la nostra preoccupazione per la messa in pratica del progetto di riforma. Ancorché le Case e gli Ospedali di Comunità verranno realizzati, saranno dotati delle figure professionali necessarie e sufficienti a interpretare la nuova assistenza territoriale? Con quali mezzi, con quale organizzazione del lavoro, con quali obiettivi e con quali finanziamenti?

Il PNRR non prevede come reperire le dotazioni organiche e tantomeno le risorse per il funzionamento; sulla transizione dall’attuale regime al nuovo nulla è definito se non la certezza della carenza del personale sanitario. Il rafforzamento dell’assistenza territoriale per essere messo in piedi e realizzato necessita di un finanziamento costante per le dotazioni, i mezzi ed il personale. Fino ad oggi il nostro Servizio Sanitario si è retto grazie al finanziamento statale erogato tramite le Regioni. Le difficoltà economiche sono evidenti: di fronte a necessità di maggiori risorse per l’alta tecnologia ospedaliera, si associa la richiesta di risorse ulteriori per il finanziamento della sanità territoriale. Le finanze nazionali e regionali mostrano di essere una coperta corta (già insufficiente alla gestione corrente) che vede tagli progressivi e riorganizzazioni dei servizi orientati ad un efficientamento che contempli sempre un risparmio.

Dobbiamo quindi pensare che nessuna riforma sia possibile per un SSN/SSR che non ha disponibilità economica necessaria e sufficiente? Dobbiamo pensare ad un sistema di finanziamento basato sulle Assicurazioni Private, sul modello nordamericano? Quanti potranno permettersi un’assicurazione che garantisca una sanità di livello europeo? Esiste un’altra modalità di finanziamento della sanità?

In diverse realtà del mondo sono state realizzate delle iniziative attraverso le quali una comunità ha trovato una risposta alla domanda di salute. Anche nel nostro Paese possono essere proposti esperimenti sulla scorta di esperienze internazionali ad una popolazione disagiata (es: una comunità montana o insulare con servizi sanitari difficili da raggiungere, con accesso problematico in alcuni periodi dell’anno), oppure una popolazione insistente su di una zona colpita da una calamità (terremoto, alluvione, frana).

In tali circostanze una comunità di piccole dimensioni potrebbe essere molto motivata a sperimentare una nuova visione della gestione della salute, attraverso lo sviluppo di uno spirito comunitario di mutuo soccorso in cui il volontariato e la coscienza comunitaria sono il motore dell’esperimento. Le attività sanitarie effettuate su iniziativa ed autofinanziamento della comunità devono interagire con i servizi territoriali previsti dal SSN, evitando di entrare in concorrenza con esso.

Per coinvolgere la popolazione è particolarmente utile la presenza di una Onlus poggiando sul suo organigramma e stimolando la partecipazione dell’intera comunità al progetto. Nella prima fase occorre una analisi partecipativa dei problemi (ci vogliono uno o più animatori con esperienza in tecniche partecipative); una volta identificata una “matrice dei problemi” si può passare alla identificazione (sempre partecipativa) delle possibili soluzioni: maggiore sarà il contributo della popolazione, più sostenibili saranno le azioni da intraprendere.  Necessario anche il contatto, il coinvolgimento e la condivisione delle autorità locali per ottenere appoggio e collaborazione. Negli interventi va privilegiata la prevenzione delle malattie, più semplice da recepire da parte della popolazione. Esempio, la modifica dello stile di vita attraverso una educazione alimentare o una adeguata attività fisica (attraverso corsi teorici e pratici) e l’educazione alla cultura delle vaccinazioni. Si tratta di interventi a basso costo che possono essere autogestiti ed autofinanziati con piccole cifre che la comunità investe sulla propria salute. Esperienze di questo tipo con ottimi risultati sono già stati fatti. Cingoli (Provincia di Macerata, Marche): Città della Prevenzione (3).

Esistono poi diverse realtà di tipo associazionistico; si tratta di associazioni legate alla Caritas o plasmate sul suo modello. Solitamente erogano servizi gratuiti basandosi sulla raccolta dei fondi dell’8 per mille. Si tratta di forme di assistenzialismo rivolto alle frange più disagiate della società: homeless, migranti più o meno clandestini; offrono una assistenza di tipo caritatevole, paternalistico non basata su di contratto come deve essere un’economia moderna.

Molto interessanti sono invece le assicurazioni sociali organizzate su piccola scala a beneficio dei soli soci; si tratta di forme di società operaia di mutuo soccorso come la Società Mutua Piemonte ETS (4). Si tratta di associazioni No-Profit che lavora per i propri associati, basandosi su principi di mutualità e di solidarietà e svolgendo attività nell’assistenza sanitaria integrativa, ovvero nell’integrazione delle prestazioni sanitarie pubbliche e delle assistenze sociali.

Queste forme di integrazione sanitaria possono sostenere i progetti di salute di una comunità, integrandosi con quelli erogati nelle Case e negli Ospedali di Comunità, affiancandosi all’assistenza domiciliare, contribuendo a sostenere economicamente il costo della sanità territoriale e a raggiungere gli obiettivi di salute.

BIBLIOGRAFIA:

  1. https://www.governo.it/it/approfondimento/pnrr-salute/16707  
  2. DECRETO 23 maggio 2022, n. 77.

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/06/22/22G00085/sg

Le prospettive di evoluzione della Sanità Territoriale alla luce del PNRR

di Guido Sampaolo

Il Patto Trasversale per la Scienza (PTS) interviene nella discussione relativa alla riorganizzazione della Sanità Territoriale del Servizio Sanitario Nazionale (SSN): per troppo tempo de-finanziato e caricato di un peso assistenziale soverchio, il servizio non riesce a garantire una risposta adeguata alla domanda di salute. Si rende necessaria una riorganizzazione del sistema che riguardi anche l’assistenza territoriale, elemento cruciale per permettere la riqualificazione del SSN; nasce da qui la proposta di spostare le cure dal livello ospedaliero a quello territoriale per accrescere l’efficienza del servizio. Ma il disinvestimento nell’assistenza ospedaliera non è stato accompagnato da pari investimento nell’assistenza territoriale. Ancora oggi gli ospedali sono sovraccaricati dalla richiesta di interventi, con fenomeni di sovraffollamento dei servizi di emergenza-urgenza. La recente pandemia di Covid-19 ha fatto emergere in maniera impietosa la disorganizzazione delle Cure Territoriali (1) che non sono riuscite a prendersi cura di tutti i pazienti che avrebbero potuto essere trattati a domicilio, con differenze stridenti tra le varie Regioni che si sono mosse con velocità e organizzazioni disparate.

La componente 1 della Missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) riguarda le “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale” (2). Nell’ambito di questa componente è contemplata la riforma volta a individuare un nuovo modello organizzativo per la rete di assistenza sanitaria territoriale, con la determinazione dei relativi standard strutturali, tecnologici e organizzativi (3). Tale riforma riguarda l’introduzione di un nuovo assetto istituzionale per la prevenzione in ambito sanitario, ambientale e climatico. Gli investimenti relativi all’assistenza territoriale da finanziare con il PNRR si sviluppano su tre diversi livelli di trattamento, da coordinare in un approccio integrato:

  1. le Case della comunità, che rappresentano il punto di accoglienza dell’assistito, con il compito di indirizzarlo verso i servizi di assistenza sanitaria primaria, sociosanitaria e sociale, oltre che di curare la promozione della salute e assicurare la presa in carico dei pazienti cronici, attraverso équipe multiprofessionali.
  2. l’Assistenza domiciliare, di cui si prevedono sia il rafforzamento, con l’obiettivo di prendere in carico almeno 800.000 nuovi pazienti oltre i 65 anni di età, sia la riorganizzazione con l’entrata in funzione delle Centrali Operative Territoriali (COT) – interconnesse e dotate di appositi dispositivi per il tele-monitoraggio dei pazienti – volte al coordinamento delle strutture sanitarie e sociosanitarie per migliorare accessibilità, continuità e integrazione delle cure. Viene prevista la diffusione della telemedicina, attraverso l’attuazione entro il 2023 di almeno un progetto per Regione, assicurando l’assistenza tramite dispositivi tecnologici digitali ad almeno 200.000 pazienti per la fine del 2025;
  3. gli Ospedali di comunità, a degenza breve (15-20 giorni), per lo sviluppo delle cure intermedie tra ospedale e ambulatorio, atti ad alleggerire gli ospedali dalle prestazioni a bassa complessità e a contenere gli accessi al pronto soccorso, dotati anche essi di interconnessione e attrezzature tecnologiche.

Vengono gettate così le basi per il rafforzamento dei servizi territoriali con le Case di Comunità che hanno l’obiettivo di migliorare l’accessibilità fornendo servizi integrati, capaci di rispondere non solo ai bisogni sanitari ma anche a quelli sociali, centrati non solo sulla persona, ma anche sulla comunità con un approccio di Medicina di Popolazione. Per raggiungere questi obiettivi si rende necessaria la conoscenza del profilo epidemiologico e degli indicatori correlati con i bisogni e gli esiti di salute della popolazione assistita e la stratificazione della popolazione sulla base del rischio. Tale modello di stratificazione ha la finalità di individuare interventi appropriati, sostenibili e personalizzati che vengono definiti nel Progetto di Salute, con una valutazione articolata sia sulla singola persona, che sulla intera popolazione. A questa definizione del Progetto di Salute contribuiscono tutti i professionisti della Casa di Comunità per tutta la durata della presa in carico, senza interruzioni tra setting assistenziali.

Nella Casa della Comunità (CdC), si dovrebbe concretizzare l’assistenza di prossimità. La CdC dovrà essere facilmente identificata in un luogo fisico al quale l’assistito può accedere per entrare in contatto con il SSN che si coordina e si integra con il sistema dei servizi sociali. Il modello di intervento sarà multidisciplinare in cui ogni attività deve essere organizzata in un lavoro d’équipe tra Medici di Medicina Generale, Pediatri di Libera Scelta, Specialisti Ambulatoriali, Infermieri di Famiglia e tutti gli altri professionisti della salute (Psicologi, Ostetrici, Assistenti Sociali etc.). L’assistenza primaria viene erogata nella CdC con i servizi H 12 e integrandosi con il servizio di continuità assistenziale H 24. La presa in carico di un paziente avviene attraverso il modello della sanità d’iniziativa e il principio della qualità dell’assistenza che rispetti le dimensioni dell’appropriatezza, sicurezza, continuità, efficienza e tempestività.

Gli obiettivi dichiarati per le CdC sono:

  • l’accesso unitario e integrato all’assistenza sanitaria, sociosanitaria a rilevanza sanitaria;
  • l’accesso alle funzioni di assistenza al pubblico e di supporto amministrativo-organizzativo svolte dal Punto Unico di Accesso (PUA);
  • la prevenzione e la promozione della salute attraverso interventi realizzati dall’equipe sanitaria con il coordinamento del Dipartimento di Prevenzione e Sanità Pubblica aziendale;
  • la promozione e tutela della salute dei minori e della donna, in campo sessuale e riproduttivo e dell’età evolutiva;
  • la presa in carico della cronicità e fragilità secondo il modello della sanità di iniziativa;
  • la valutazione del bisogno della persona e l’accompagnamento alla risposta più appropriata;
  • la risposta alla domanda di salute della popolazione e la garanzia della continuità dell’assistenza anche attraverso il coordinamento con i servizi sanitari territoriali (es. DSM, consultori, ecc.);
  • l’attivazione di percorsi di cura multidisciplinari, che prevedono l’integrazione tra servizi sanitari, ospedalieri e territoriali, e tra servizi sanitari e sociali;
  • la partecipazione della comunità locale, delle associazioni di cittadini, dei pazienti, dei caregiver.

Alla fine di luglio 2023 il Governo ha preso atto delle difficoltà di attuazione sia economiche che tempistiche delle strutture sanitarie (Casa della Comunità, Ospedali della Comunità) ma anche per i progetti di transizione digitale (telemedicina etc.). Sono stati pertanto rivisti i target con una riduzione degli interventi da finanziare con le risorse del PNRR entro il 2026; pertanto il piano di revisione del Governo fa scendere il numero delle Case della Comunità da 1.350 a 936, gli Ospedali di Comunità da 400 a 304 e le COT che scendono da 600 a 524. Novità anche sul Fascicolo sanitario elettronico: la proposta di modifica riguarda la previsione secondo la quale l’integrazione/l’inserimento dei documenti nel FSE deve iniziare dai documenti nativi digitali, escludendo dal perimetro dell’intervento la migrazione/trasposizione ad hoc di documenti cartacei attuali o vecchi. Spostati anche i tempi di realizzazione dei progetti di telemedicina: la modifica riguarda il target relativo le persone assistite attraverso gli strumenti della telemedicina, per cui viene differito il conseguimento di un semestre.

Il PNRR, al netto dei tagli che il Governo si presta ad operare rispetto al progetto originario delineato nella Misura 6 del PNRR e il DM 77, rappresentano un’occasione importante per la riqualificazione del SSN.  A nostro giudizio, l’approccio attraverso il modello della medicina di iniziativa (che parte dall’ analisi epidemiologica che definisce il rischio sanitario della comunità assistita dalla CdC per poter operare interventi di prevenzione sull’intera popolazione, fino agli interventi mirati di presa in carico, cura ed assistenza sul singolo individuo) è un eccellente punto di partenza per la riorganizzazione del sistema della sanità territoriale. Si modifica così l’intervento assistenziale che attende l’evento patologico per curarlo, spostando l’asse della presa in carico sulla prevenzione primaria e secondaria attraverso i vari strumenti che l’articolato SSN può mettere a disposizione. È evidente che tale cambio di paradigma, se correttamente interpretato e messo a regime, non può che portare dei grandi benefici poiché intercetta il rischio delle varie situazioni patologiche e introduce gli strumenti di prevenzione (informazione, educazione sanitaria, vaccinazioni, adozione dei corretti stili di vita), notoriamente più economici ed efficaci degli strumenti di cura ad evento patologico avvenuto. Inoltre, il modello multidisciplinare condiziona tutte le articolazioni distrettuali a lavorare assieme per definire a priori il rischio epidemiologico, i compiti di ciascun dipartimento e coordinare l’intervento che ciascun professionista dovrà effettuare con gli altri.

Riteniamo che questa modifica dell’approccio ai problemi di salute con interventi preordinati di sanità pubblica necessiti un forte investimento informativo / educativo sulla popolazione. La recente Pandemia ha mostrato ancora una volta la scarsa cultura sanitaria della popolazione italiana. A parte il fenomeno negazionista dei no – vax, è emersa chiaramente la misconoscenza dei determinanti fondamentali della salute. Larga parte della popolazione non sa che le malattie infettive sono determinate da agenti trasmissibili; non conosce le basi elementari dell’igiene (lavarsi le mani, restare a casa se si è malati); richiede terapie antibiotiche per situazioni che non necessitano; diffida delle vaccinazioni (come appare chiaro dal flop della campagna vaccinale per i soggetti a rischio nei confronti del Covid); non conosce e non adotta i corretti stili di vita; si rivolge a “medicine alternative”, etc. È necessario un investimento forte per elevare la cultura sanitaria degli italiani per far comprendere che non si va più dal MMG per il raffreddore, ma si otterrà nella CdC una valutazione di più ampio respiro con la misurazione del rischio e gli interventi sanitari conseguenti. I programmi di educazione sanitaria (gestiti dalle Regioni, con conseguenti differenze in relazione e alle diverse sensibilità politiche) dovranno pervadere la società, partendo dalle scuole, attraversando i posti di lavoro e tutte le realtà / aggregazioni sociali per coinvolgere attivo nel cambiamento e riorganizzazione dei servizi sanitari territoriali.

Per quello che riguarda il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) strumento indispensabile per permettere agli operatori sanitari di lavorare in sinergia sui problemi di salute del singolo individuo, sono palesi le storture con i vari FSE vengono portato avanti in modo differente e “comparto stagno” da ciascuna Regione, impedendone di fatto l’interscambiabilità dei dati, concetto alla base dell’origine dell’FSE stesso. Per non parlare della “telemedicina”: termine generico e abusato dai più. Con il termine telemedicina si intende correttamente un arcipelago di attività (4) che si avvalgono degli strumenti dell’ICT (Information and Communication Technologies):

  • La tele – educazione in salute e medicina: funziona con l’aiuto di un insegnante a distanza sincrono (teleconferenze) e/o asincrono (produzione e invio in rete di materiali digitali) per la formazione e la specializzazione dei professionisti della salute o per l’educazione della popolazione nei determinanti della salute pubblica.
  • La telemedicina è anche una prestazione sanitaria di cure assistenza e cura mediche, in favore del paziente. Può essere effettuata sotto forma di:
    • teleconsulto medico indirizzato al paziente
    • teleconsulto per l’aiuto decisionale del professionista che ha in cura il paziente
    • refertazione a distanza a distanza di test clinici (radiologia, eco, istopatologia, etc.)

Per porre il MMG in condizioni di fare l’auspicato salto di qualità occorre, a nostro avviso un supporto di teleconsulto clinico che consenta di gestire al primo livello i casi meno complessi, di disporre di consulenze multidisciplinari per i casi complessi in modo di poter avviare in maniera appropriata al secondo / terzo livello solo i casi che realmente necessitano del ricovero ospedaliero o delle prestazioni specialistiche. Il teleconsulto medico a distanza tra medico e paziente o tra medico e medico o ad entrambe implica inevitabilmente la presenza di una figura medica che effettui una valutazione medica di diagnostica e cura; non può essere effettuato che da personale medico che fornisce un consulto al paziente o altri medici.  

Infine, siamo preoccupati per la messa in pratica del progetto di riforma della sanità territoriale previsto dal PNRR e dal DM 77. Le CdC saranno dotate delle figure professionali necessarie e sufficienti a interpretare la nuova assistenza territoriale? Con quali mezzi, con quale organizzazione del lavoro, con quali obiettivi e con quali finanziamenti? Chi avrà la responsabilità di dirigere il sistema, considerata l’autonomia delle Aziende Sanitarie Territoriali? Chi parla di telemedicina sa di cosa sta parlando?

Questi interrogativi sorgono spontanei nel momento in cui il PNRR non prevede come reperire le dotazioni organiche del personale e le risorse per il suo funzionamento. In particolare, la figura del MMG viene di fatto inserita nella nuova organizzazione, ma sulla transizione dall’attuale regime al nuovo nulla è definito se non la certezza della carenza assoluta delle unità necessarie, già messe sotto scacco da un lavoro soverchio che non consente di pensare a tempi ulteriori di impegno distrettuale. Il rafforzamento dell’assistenza territoriale può essere realizzato con un incremento delle risorse finanziarie, che attualmente non è contemplato nell’ambito della programmazione economica. Implementare l’assistenza domiciliare vuol dire avere più personale sanitario al di là della difficile reperibilità. Va studiata e rapidamente messa in pratica una transizione per coinvolgere i MMG nelle Case di Comunità dal vecchio modello attuale, basato sugli studi singoli o associati, al nuovo modello di medicina di iniziativa che possa avvalersi di strumenti digitali efficaci (FSE, Tele Consulto), con una chiara regolazione delle forme e dei modi della partecipazione che non penalizzi questi professionisti e il servizio erogato alla popolazione.

BIBLIOGRAFIA:

  1. Association between self-reported healthcare disruption due to covid-19 and avoidable hospital admission: evidence from seven linked longitudinal studies for England – M.Green, M. McKee et al. BMJ 2023;382: https://doi.org/10.1101/2023.02.01.23285333
  2. https://www.governo.it/it/approfondimento/pnrr-salute/16707  
  3. DECRETO 23 maggio 2022, n. 77.

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/06/22/22G00085/sg

  • ESAUDE: livro de ensino para estudantes de cursos de ciências da saúde e para profissionais de saúde

PARTE I – FUNDAMENTOS E JUSTIFICAÇÃO DA E-SAÚDE.

Luis Goncalves, Miguel Castelo-Branco, Nando Campanella

https://www.ubi.pt/Ficheiros/Sites/12/Paginas/945/eSaude.pdf

  • Come si formano i futuri medici di medicina generale in Italia? Studio pilota descrittivo di comparazione dei Corsi di formazione specifica in medicina generale

V Forte, C Pelligra, LM Bracchitta, G Marini, A Mereu et Al.

Recenti Prog. Med. 2022;113(10):601-608

La figura del Medico di Medicina Generale

di Guido Sampaolo

Il Patto Trasversale per la Scienza (PTS) interviene nella discussione relativa alla riorganizzazione della Sanità Territoriale del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Lo spunto proviene dalla Missione 6, Componente 1 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che riguarda le “Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”, che prevede una profonda ristrutturazione dell’assistenza sanitaria territoriale. Inoltre, il D.M. 77/2022 assegna grandi potenzialità all’Assistenza Territoriale affidata per competenza alle Regioni; con una prevedibile disomogeneità tra di esse; l’attuazione dei servizi viene affidata alle Aziende Sanitarie e ai Comuni, con una inevitabile eterogeneità nei compiti e nelle funzioni. Il decreto prevede che le regioni debbano completare il nuovo assetto entro il 2026, l’anno della conclusione degli interventi del PNRR.

La figura professionale sui tutt’oggi è imperniata l’assistenza territoriale è il medico di medicina generale (MMG).  Il SSN ha affidato al MMG grandi responsabilità: la principale è quella di ricevere la domanda di salute del paziente e trasformarla in una risposta che può andare da un semplice counselling fino alla formulazione di diagnosi e terapie, anche complesse. Se fa intraprende al paziente il corretto percorso diagnostico e terapeutico raggiunge l’obiettivo di fornire un servizio efficace per il paziente che viene “curato bene”, ma non solo: riesce a migliorare l’efficienza dell SSN, utilizzando in maniera corretta strutture, personale e tecnologie, ottimizzando l’investimento di cui la fiscalità pubblica lo ha dotato.

Secondo la definizione della Word Organization of Family Doctors (WONCA) “La medicina generale / medicina di famiglia è una disciplina accademica e scientifica, con propri contenuti educativi e di ricerca, proprie prove di efficacia, una propria attività clinica e una specialità clinica orientata alle cure primarie…  è normalmente il luogo di primo contatto medico all’interno del sistema sanitario, fornisce un accesso diretto ed illimitato ai suoi utenti, si occupa di tutti i problemi di salute, indipendentemente da età, sesso e ogni altra caratteristica della persona.” (1).

Per comprendere in cosa consiste l’attività del MMG occorre rispondere alla domanda: quali sono i problemi di salute che normalmente il paziente presenta al proprio MMG? Si può stimare che quasi l’80% dei problemi di cui si occupa il MMG siano di natura internistica come risulta dal XV REPORT HEALTH SEARCH (2). Si tratta di malattie cardiovascolari, infettive, endocrino – metaboliche, respiratorie, renali, neurologiche, immuno-ematologiche, gastroenterologiche e neoplastiche. Si potrebbe pertanto definire il MMG come la figura professionale che esercita quotidianamente la Medicina Interna, sebbene non al livello della profondità e complessità dell’Internista. Per il restante 20% le consultazioni riguardano patologie di stretta pertinenza specialistica a cui il MMG deve necessariamente affidare il paziente: chirurgia generale e specialistica (oculistica, otorino, ginecologia, ortopedia, urologia). Poiché la popolazione italiana è anziana ed è destinata ad invecchiare, spesso le varie condizioni patologiche si assommano nello stesso paziente, creando una situazione di complessa multi-morbilità; spetta ancora una volta al MMG effettuare il lavoro di riconciliazione tra le varie terapie.

La critica della Medicina Generale: attualmente e da più parti, la figura del MMG è stata messa in discussione: accusato di inefficienza, di scarsa disponibilità, di insufficiente efficacia alle mutate condizioni assistenziali della popolazione. La Pandemia di Covid-19 ha costituito uno stress test anche per la Medicina Generale che ha mostrato difficoltà nel prestare la continuità assistenziale. Questo fatto ha causato un aumento dei ricoveri evitabili (3), testimoniando quanto sia importante l’accesso continuo alle cure primarie anche durante le emergenze.

Dopo 45 anni dalla nascita del SSN in cui tutto o quasi è cambiato, anche le Cure Primarie e la Medicina Generale presentano la necessità di essere ristrutturate per riuscire a fornire una risposta qualificata, sia alla domanda di salute del paziente che alla richiesta di efficacia ed efficienza del SSN. Desideriamo sottolineare che il cambiamento non può riguardare solo la Sanità Territoriale o la figura del MMG. La revisione della “macchina sanitaria” non può riguardare un singolo ingranaggio: anche tutte le altre componenti devono necessariamente essere aggiornate ed efficientate, curando soprattutto le connessioni tra le varie unità operative dell’ospedale e del territorio.       

È innegabile che l’evoluzione scientifica tumultuosa, i cambiamenti organizzativi del SSN (legati per lo più ai tagli della spesa, piuttosto che ad una vera riorganizzazione) abbiano chiesto anche ai MMG la capacità di adeguare il loro lavoro a questo mutato contesto.

La carenza di medici ha richiesto un innalzamento del numero dei pazienti che ciascun MMG deve assistere, con un pesante aumento del carico di lavoro (2), assieme alla richiesta di prestazioni per le patologie croniche e degenerative, aumentata a dismisura. Oltre che nel suo ambulatorio e a domicilio il MMG ha il compito di fornire assistenza nel Sistema della Residenzialità: RSA, Hospice, Ospedali di Comunità, Case di Riposo, etc. L’uso dilagante dei “social networks” ha permesso agli assistiti di rivolgere ogni tipo di richieste, a volte inappropriate o immotivate, con la pretesa di ottenere “tutto e subito”: dai farmaci al consulto, alla trasmissione di referti, senza alcuna prudenza nel diffondere i propri dati sanitari e di violare le disposizioni sulla privacy. L’origine di questa falsa o inutile domanda di salute deriva da una scarsa cultura sanitaria. Non c’è mai stata nelle agende dei vari Governi Nazionali o Regionali un programma di educazione alla salute, non si è pensato ad istruire il cittadino all’uso corretto dei servizi che il SSN gli ha messo a disposizione.

“Gli italiani hanno succhiato il latte erogato dalle mammelle del Servizio Sanitario, fino a prosciugarle” Cit. Piero Angela – Superquark 7 dicembre 2012. 

La mancata educazione sanitaria assieme alle eccessive aspettative della popolazione nei confronti della medicina hanno creato una situazione difficilmente controllabile per l’interazione di numerosi fattori: facilità di accesso attraverso internet a informazioni non validate, assenza di un programma istituzionale di informazione sanitaria, progressiva medicalizzazione della società, promozione attraverso i mass media di prestazioni sanitarie (consumismo sanitario). Il MMG fatica a fornire una risposta corretta alla domanda eccessiva, con l’inevitabile conseguenza che le prescrizioni crescono a dismisura ingrassando le liste d’attesa con la richiesta di prestazioni a volte inutili/ripetitive/ridondanti, “estorte” dai pazienti al proprio MMG. Il panorama complessivo fornito dalla Medicina Generale è quello di una professione sotto scacco, nonostante l’impegno e l’abnegazione della stragrande maggioranza dei MMG.

Ma il MMG è stato messo in condizione di svolgere al meglio la sua professione? Per rispondere a questa domanda occorre partire dalla Formazione Specifica e Permanente. Il medico che desideri divenire MMG deve affrontare un Corso di Formazione Specifico per la Medicina Generale, gestito dalle singole Regioni, con accesso a numero chiuso (4). Il corso si articola su di una serie di tirocini sia presso un MMG Tutor che nelle Divisioni di Medicina, Chirurgia, Pronto Soccorso, nei Servizi Distrettuali e su di un corpus di lezioni/seminari che affronta i temi specifici delle Cure Primarie.

Non esiste un core curriculum nazionale per il Corso che non è equiparato a una scuola di specializzazione. La qualità dei Corsi è disparata: sono presenti notevoli differenze organizzative e di contenuto tra le Regioni; il modello d’apprendimento è basato più su requisiti minimi di tempo che sulle competenze. Non sono comparabili, i profili professionali/accademici dei docenti; non sono rintracciabili informazioni sulle metodologie di formazione; non esiste un sistema di monitoraggio periodico che riporti indicatori specifici (quantitativi e qualitativi) (5). Nel Corso non viene riconosciuta la precipua attività internistica del MMG e lo spazio affidato al tirocinio di medicina clinica e di laboratorio è del tutto insufficiente. I Tutor sono selezionati solo per l’anzianità di servizio e non per chiare competenze didattiche. C’è grave carenza di attività didattiche teoriche e seminariali e di corsi professionalizzanti di diagnostica di primo livello (Ecografia, ECG, Spirometria, ABPM, Holter ECG, etc.). A ciò si aggiunga che i Tutor sia Ospedalieri che MMG sono oberati dall’attività clinica, con poco tempo per coinvolgere adeguatamente il Tirocinante nell’epicrisi dell’attività clinica con la necessaria discussione dei casi e dei percorsi. Il prodotto finale è un MMG che dopo un triennio formativo non ha ricevuto una preparazione sufficiente per prendersi cura delle persone che lo sceglieranno quale medico di famiglia.

Parimenti carente è la Formazione Permanente, quella che consente ad un professionista di fornire una risposta adeguata, efficace ed efficiente per tutto l’arco della vita professionale. L’ Accordo Collettivo Nazionale per la MG (ACN) prevede una formazione obbligatoria certificata ECM (Educazione Continua in Medicina) attraverso iniziative regionali che devono garantire almeno il 50% (fino al 70%) del debito formativo annuale. Tale debito formativo non viene normalmente assolto dalle Regioni. Il MMG è stato così escluso da una formazione che perseguisse chiari obiettivi strategici del SSN o SSR su linee guida e percorsi diagnostico terapeutici di tante patologie ad elevato impatto sociale. Pertanto, il MMG ha provveduto di propria iniziativa, partecipando ad iniziative promosse dal Sindacato, dalla Società Scientifica e dall’Industria Farmaceutica. Il prodotto finale è quello di una formazione scoordinata, disparata ed eterogenea.

Di recente il Ministro della Salute, Prof Orazio Schillaci è intervenuto nel dibattito sulla formazione del MMG, sottolineando che è determinante “intervenire individuando la modalità per transitare dall’attuale corso di formazione regionale ad una vera e propria scuola di specializzazione, con il coinvolgimento dei MMG in qualità di docenti che possano trasferire la propria esperienza e competenza nella formazione dei giovani. Una misura risolutiva per dare riconoscimento e restituire autorevolezza al lavoro dei medici di famiglia che da sempre sono un punto di riferimento per milioni di cittadini” (6).

L’opera quotidiana del MMG è un “ponte tra l’umanesimo e la scienza”, attraverso il quale occorre trasferire capace di trasferire le evidenze scientifiche nella cura della persona. Tuttavia, il MMG può essere dotato delle conoscenze e delle competenze necessarie per affrontare tutti i problemi di salute. Pertanto, deve coinvolgere il secondo livello (specialistico) chiedendo consulenze ed accertamenti necessari alla definizione diagnostica e ad affrontare un corretto percorso terapeutico. Tuttavia, è facile constatare come esista un eccesso di affidamento al livello specialistico; se questo è giustificato per le patologie più complesse o quelle in cui occorrano competenze multidisciplinari, non lo è affatto per le patologie di maggior impatto epidemiologico. La nascita e lo sviluppo di “Centri” per tali patologie (ipertensione, diabete, dislipidemie, menopausa, osteoporosi etc.) ha contribuito ad alimentare in forte misura il ricorso al livello specialistico (che volentieri si è occupato di patologie “facili”, drenando risorse e finanziamenti), svuotando il MMG dell’organizzazione necessaria per prestare l’assistenza alle persone affette da tali patologie. Non esiste un solo colpevole: il MMG ha spesso “trovato comodo” l’invio al livello specialistico piuttosto che rimboccarsi le maniche; il paziente ha chiesto (spesso preteso) di essere inviato al “Centro” anche quando non ce n’era bisogno; lo Specialista del “Centro” ha ben volentieri potenziato la propria posizione; livello politico ha potuto intestarsi la realizzazione dei “Centri”, assegnando appalti e posti di lavoro; i mass media hanno fatto pubblicità; il Sindacato ha così livellato al ribasso le competenze del MMG, piuttosto che farle crescere. Centri di spesa, verrebbe da dire, non solo per il loro costo, ma soprattutto perché quelle patologie potevano essere trattate al primo livello con risultati analoghi e molto meno costosi. Adesso, che anche i vari Centri sono de-finanziati dai tagli al SSN, viene chiesto al MMG di riappropriarsi della capacità di prendere in carico quei pazienti.

Per erogare tutto il carico assistenziale che gli viene richiesto, il MMG deve dotarsi di una efficiente organizzazione del lavoro. Un MMG che lavori da solo, senza l’ausilio di personale di studio e abbia in carico più di 1500 persone non ce la può fare. Per raggiungere tali obiettivi occorre innanzitutto passare alla logica di condivisione dei percorsi e dei fattori produttivi. Non tutti i MMG si avvalgono di personale di segreteria; solo una sparuta minoranza si avvale della collaborazione dell’Infermiere. Per migliorare le capacità diagnostiche di presa in carico del paziente è necessario che il MMG possa effettuare una diagnostica di primo livello: ECG, Holter, POCUS (Point of Care Ultra Sound), Spirometria etc. Il MMG non deve trasformarsi in uno Specialista che esegue prestazioni strumentali, ma può efficacemente effettuare una diagnostica strumentale di primo livello per dare una risposta immediata alle richieste dei pazienti e selezionare i pazienti da inviare al livello specialistico. Ad oggi questo è possibile solo attraverso una autonoma organizzazione (costosa e riconosciuta parzialmente) che richiede investimenti e capacità manageriale. Anche per questa insufficiente organizzazione gli obiettivi di salute (gli standard indicati dalle Linee Guida per le singole patologie) non vengono raggiunti, in Italia come altrove.

Esistono poi delle “barriere invisibili” che ostacolano la collaborazione tra Territorio e Ospedale. Le occasioni di scambio e collaborazione col livello specialistico si basano per lo più su consuetudini e conoscenze personali. Le amministrazioni non hanno mai compreso che la causa principale della scarsa efficienza di un sistema sanitario è l’insufficiente collegamento tra i vari componenti. Lo strumento del Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) che contiene i dati sanitari del cittadino e che consente il flusso dei dati tra i vari operatori della salute è presente solo in alcune regioni; in altre (come le Marche) è attivo, ma scarsamente funzionale: solo pochi elementi possono essere caricati o consultati in una situazione di “work in progress”. Il problema è acuito non soltanto dai ritardi nella creazione e implementazione dei vari fascicoli regionali, ma anche dalla scelta delle Regioni di andare in ordine sparso; così i vari fascicoli non dialogano tra loro: tutt’ora il paziente viaggia col pacco deli esami e delle cartelle sottobraccio. La responsabilità del caos informatico e telematico è dovuta ai diversi livelli decisionali: 1) chi progetta i programmi è un tecnico lontano dalle professioni sanitarie, che non vengono chiamate a fornire specifiche e testare le funzionalità; 2) le Amministrazioni Sanitarie  Regionali, che lavorano a “comparto stagno” tra di loro; 3) l’eccessiva delega dello Stato alle Regioni della materia sanitaria che, perlomeno nei suoi fondamentali come il FSE, dovrebbe ispirarsi al principio dell’uguaglianza; 4) il corporativismo e l’autoreferenzialità delle varie categorie (Medicina Generale compresa), su cui interessi professionali e sindacali, ostacolano l’abbattimento delle barriere.

Una soluzione proposta per migliorare il servizio fornito dal MMG al SSN è quella di passare il MMG dall’attuale regime libero professionale (LP) alla dipendenza. Chi teorizza questa soluzione postula che il MMG dipendente dovrà obbligatoriamente seguire le determine del Distretto così i tetti di spesa e gli obiettivi di budget verrebbero più facilmente raggiunti. Questa proposta appare superficiale e inefficace per diversi motivi: il passaggio alla dipendenza non ridurrebbe affatto il costo, perché occorrerebbe un numero maggiore di MMG dipendenti rispetto ai LP per assistere la stessa popolazione, assieme alle spese che il Distretto SSN deve accollarsi per provvedere alla organizzazione del lavoro (sedi di lavoro dei MMG, dotazioni strumentali e tecnologiche, canoni, assicurazioni, personale di studio etc.), attualmente a totale carico del MMG. Inoltre, il raggiungimento degli obiettivi di salute non si persegue attraverso percorsi dettati dall’alto, ma con una analisi epidemiologica dei bisogni di salute della popolazione assistita e del singolo individuo su cui il MMG (dipendete o LP) applica (assieme agli altri operatori, Infermieri, Specialisti etc.) un intervento appropriato di prevenzione, diagnosi e terapia. Pertanto, non crediamo che il problema del MMG sia riposto nel rapporto LP o Dipendenza. C’è piuttosto bisogno di una riqualificazione complessiva, di un moderno modo di concepire l’assistenza territoriale in cui la Dipendenza o la LP divengono dettagli, finanche opzionali. 

  1. https://www.woncaeurope.org/file/27674b39-8f00-4577-b7d7- 3fa912e93305/Definition%203rd%20ed%202011%20with%20revised%20wonca%20tree.pdf
  2. https://report.healthsearch.it/
  3. Association between self-reported healthcare disruption due to covid-19 and avoidable hospital admission: evidence from seven linked longitudinal studies for England – M.Green, M. McKee et al. BMJ 2023;382: https://doi.org/10.1101/2023.02.01.23285333  
  4. https://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/99368dl.htm  
  5. Come si formano i futuri medici di medicina generale in Italia? Studio pilota descrittivo di comparazione dei Corsi di formazione specifica in medicina generale. V Forte, C Pelligra, LM Bracchitta, G Marini, A Mereu et Al.

Recenti Prog. Med. 2022;113(10):601-608

https://www.recentiprogressi.it/archivio/3888/articoli/38706/

La disciplina giuridica del suicidio assistito

di Luciano Butti

In ogni ordinamento giuridico, la disciplina giuridica del suicidio assistito è questione complessa, che tocca problemi medici, costituzionali ed etici. Da un lato, infatti, vi è la libertà di cura e di “gestione” del proprio corpo, che solo in casi particolari può essere limitata dalla legge (ciò avviene, ad esempio, per gli obblighi vaccinali, sottoposti infatti a precise e rigorose condizioni di legittimità).

Dall’altro, vi è il fatto che, nella maggior parte dei casi, il paziente terminale che intende porre fine alla propria vita in modo non traumatico e foriero di ulteriori sofferenze non è in grado di procedere da solo. Il paziente richiede perciò assistenza, e proprio qui nasce il problema giuridico: è evidente infatti che la collaborazione al suicidio altrui può essere considerata legittima solo in presenza di condizioni ben chiare, altrimenti si sconfina nell’arbitrio sulla vita delle persone.

Nei Paesi seri, queste tematiche vengono discusse in modo approfondito nella società civile e in Parlamento, che alla fine trova un equilibrio e definisce le condizioni di legittimità del suicidio assistito nel proprio territorio.

In Italia, invece, nonostante i ripetuti solleciti della Corte costituzionale, il Parlamento non è riuscito a deliberare alcunché, nonostante l’alternarsi di diverse maggioranze nel Paese.

E’ dovuta perciò intervenire la Corte costituzionale, con la sentenza 242/2019. E’ importante sottolineare che la Corte costituzionale non ha il compito di individuare la disciplina “migliore” (questo compito spetta al Parlamento, che da molti anni non lo sta assolvendo). Compito della Corte è invece soltanto quello di individuare l’ambito ristretto di casi in cui – se il suicidio assistito non viene riconosciuto legittimo – la punizione di chi coopera nella procedura diviene incostituzionale: insomma, una sorta di punto di partenza, tenendo conto del quale il Parlamento dovrebbe decidere.

La Corte ha individuato 4 requisiti sostanziali che devono essere presenti perché la punibilità di chi coopera alla procedura si possa escludere (anche senza una decisione del Parlamento): a) essere (la persona interessata) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, b) affetta da una patologia irreversibile che c) è fonte di intollerabili sofferenze ed infine d) quando la persona sia tenuta in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale.

Nel caso di Sibilla Barbieri, la discussione si incentra sul quarto requisito: la presenza di trattamenti di sostegno vitale che, prima dell’exitus (avvenuto in Svizzera, con la collaborazione di diverse persone), tenessero in vita la persona.

Secondo l’equipe medica italiana, mancava il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale e, pertanto, le condizioni previste dalla Corte Costituzionale non erano soddisfatte.

Secondo Sibilla Barbieri, invece, il trattamento di sostegno vitale era costituito da ossigenoterapia e da farmaci per il dolore che, se interrotti, avrebbero portato velocemente a una morte dolorosa.

E’ presumibile che un procedimento penale venga avviato a carico delle persone che hanno aiutato Sibilla, le quali, in caso di condanna, rischiano una pena consistente. Il procedimento si deciderà sulla valutazione scientifica relativa alla nozione di “trattamento di sostegno vitale”: ossigenoterapia e farmaci per il dolore possono essere considerati tali?

Diverso sarebbe naturalmente il caso se il Parlamento finalmente intervenisse con una legge che ridimensionasse il requisito della presenza di un trattamento di sostegno vitale. Le probabilità che ciò possa avvenire in tempi brevi sembrano scarse; certo, una classe politica che ripetutamente critica un presunto esagerato interventismo della magistratura e che però non compie il proprio dovere di legiferare mostra scarsa consapevolezza del proprio ruolo e dei propri doveri.

Politica e COVID-19. Dall’obbligo di isolamento al “senso di responsabilità”

Nella “pancia” del decreto Omnibus (con cui il Governo conclude temporaneamente l’attività legislativa fino a settembre) troviamo anche l’abolizione dell’articolo 10 ter del decreto legge 52 del 2021 che prevedeva l’obbligo di isolamento nella propria abitazione fino a dimostrata guarigione. Sicuramente la norma era obsoleta ed è giusto riconoscerne a posteriori i limiti, tra cui i molti casi in cui l’attesa della negativizzazione del tampone è durata settimane (con tutte le conseguenze negative per l’individuo e per la società) e il dato di fatto che molti, al manifestarsi di sintomi respiratori, hanno scelto l’autotest (con scarsa attendibilità dei risultati) anche per non denunciare ufficialmente l’eventuale positività. La perplessità espressa da diversi autorevoli clinici, scienziati e società scientifiche è riferibile alle affermazioni del Ministro della Salute, Prof. Orazio Schillaci, quando, in una recente intervista al TG1, ha commentato l’abolizione del decreto sostenendo che il contenimento dell’infezione da SARS-CoV-2 (il coronavirus che causa la malattia CIVID-19) sarà affidato al “senso di responsabilità” (“…in caso di positività soprattutto se ci sono sintomatologie è il buon senso che deve invitarci a non andare vicino alle persone fragili e anziane”), concetto poi ripreso nelle circolari dell’11 agosto 2023 relative del nuovo Direttore Generale della Prevenzione Sanitaria del Ministero della Salute, Dr. Francesco Vaia.

                Noi, come PTS, riteniamo che se un Governo decide di abbandonare norme impositive sul comportamento delle persone a favore del “senso di responsabilità” ciò debba essere accompagnato da un significativo ed evidente investimento in campagne di informazione, educazione alla salute pubblica e vaccinazione (contro COVID-19 ed altre patologie infettive quali influenza e, meningococco), come anticipato nel recente Piano nazionale di Prevenzione Vaccinale 2023-2025 (https://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=6325) e dalla circolare della Prevenzione Sanitaria del Ministero della Salute del 14 agosto 2023 a firma del Dr. Francesco Vaia.

In altre parole, il “senso di responsabilità” dovrebbe divenire la caratteristica distintiva dell’azione del Governo, quantomeno in materia di salute, per essere credibile nel momento in cui lo richiede ai cittadini anche per non alimentare il sospetto di un semplice “scaricabarile” su altri organi deputati alla gestione della salute della popolazione (dalle regioni alle ATS agli ospedali fino ai singoli Medici di Medicina Generale).

                Attendiamo quindi di capire se l’abolizione dell’obbligo d’isolamento individuale e l’appello al “senso di responsabilità” si tradurranno in un rinnovato impegno del Governo di promozione della salute nel prossimo autunno, già alle porte. Nel frattempo, segnaliamo che una nuova “variante d’interesse” del virus (EG.5, ribattezzata “Eris”) si sta propagando vigorosamente a livello globale (l’OMS stima che attualmente sia responsabile di ca. il 12% delle nuove infezioni) sebbene non desti motivi di preoccupazione particolare da un punto di vista clinico (https://www.microbiologiaitalia.it/salute-pubblica/variante-eg-5-del-covid-19-in-rimonta/), sempre che riprenda in autunno la campagna di prevenzione della malattia con i vaccini aggiornati.

Articolo di Valentina Santarpia su Corriere della Sera https://roma.corriere.it/notizie/politica/23_agosto_28/covid-non-previsto-l-isolamento-dei-positivi-in-ospedale-i-medici-lacuna-molto-grave-5f6e7c42-10da-4917-b445-56586ac11xlk.shtml