di Luciano Butti
In ogni ordinamento giuridico, la disciplina giuridica del suicidio assistito è questione complessa, che tocca problemi medici, costituzionali ed etici. Da un lato, infatti, vi è la libertà di cura e di “gestione” del proprio corpo, che solo in casi particolari può essere limitata dalla legge (ciò avviene, ad esempio, per gli obblighi vaccinali, sottoposti infatti a precise e rigorose condizioni di legittimità).
Dall’altro, vi è il fatto che, nella maggior parte dei casi, il paziente terminale che intende porre fine alla propria vita in modo non traumatico e foriero di ulteriori sofferenze non è in grado di procedere da solo. Il paziente richiede perciò assistenza, e proprio qui nasce il problema giuridico: è evidente infatti che la collaborazione al suicidio altrui può essere considerata legittima solo in presenza di condizioni ben chiare, altrimenti si sconfina nell’arbitrio sulla vita delle persone.
Nei Paesi seri, queste tematiche vengono discusse in modo approfondito nella società civile e in Parlamento, che alla fine trova un equilibrio e definisce le condizioni di legittimità del suicidio assistito nel proprio territorio.
In Italia, invece, nonostante i ripetuti solleciti della Corte costituzionale, il Parlamento non è riuscito a deliberare alcunché, nonostante l’alternarsi di diverse maggioranze nel Paese.
E’ dovuta perciò intervenire la Corte costituzionale, con la sentenza 242/2019. E’ importante sottolineare che la Corte costituzionale non ha il compito di individuare la disciplina “migliore” (questo compito spetta al Parlamento, che da molti anni non lo sta assolvendo). Compito della Corte è invece soltanto quello di individuare l’ambito ristretto di casi in cui – se il suicidio assistito non viene riconosciuto legittimo – la punizione di chi coopera nella procedura diviene incostituzionale: insomma, una sorta di punto di partenza, tenendo conto del quale il Parlamento dovrebbe decidere.
La Corte ha individuato 4 requisiti sostanziali che devono essere presenti perché la punibilità di chi coopera alla procedura si possa escludere (anche senza una decisione del Parlamento): a) essere (la persona interessata) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, b) affetta da una patologia irreversibile che c) è fonte di intollerabili sofferenze ed infine d) quando la persona sia tenuta in vita attraverso trattamenti di sostegno vitale.
Nel caso di Sibilla Barbieri, la discussione si incentra sul quarto requisito: la presenza di trattamenti di sostegno vitale che, prima dell’exitus (avvenuto in Svizzera, con la collaborazione di diverse persone), tenessero in vita la persona.
Secondo l’equipe medica italiana, mancava il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale e, pertanto, le condizioni previste dalla Corte Costituzionale non erano soddisfatte.
Secondo Sibilla Barbieri, invece, il trattamento di sostegno vitale era costituito da ossigenoterapia e da farmaci per il dolore che, se interrotti, avrebbero portato velocemente a una morte dolorosa.
E’ presumibile che un procedimento penale venga avviato a carico delle persone che hanno aiutato Sibilla, le quali, in caso di condanna, rischiano una pena consistente. Il procedimento si deciderà sulla valutazione scientifica relativa alla nozione di “trattamento di sostegno vitale”: ossigenoterapia e farmaci per il dolore possono essere considerati tali?
Diverso sarebbe naturalmente il caso se il Parlamento finalmente intervenisse con una legge che ridimensionasse il requisito della presenza di un trattamento di sostegno vitale. Le probabilità che ciò possa avvenire in tempi brevi sembrano scarse; certo, una classe politica che ripetutamente critica un presunto esagerato interventismo della magistratura e che però non compie il proprio dovere di legiferare mostra scarsa consapevolezza del proprio ruolo e dei propri doveri.